Contro lo specialismo, elogio della cultura

Fonte Immagine: baleia

Viviamo nel tempo della barbarie tecnicizzata. Domina lo specialismo di un’epoca in cui la nuova linea divisoria tracciata da Dante tra i bruti e chi segue “virtute e canoscenza” ha dischiuso uno spettacolo inedito: si può oggi vivere alla stregua dei bruti pur maneggiando disinvoltamente gli apparati tecnici e facendo con spregiudicata ars calcolatoria cospicui affari in borsa; e ciò a maggior ragione se si considera, come insegna Vico, che il quid proprium del bruto sta nell’essere mosso dall’esterno e nel non essere autonomo.

Grazie al trionfo dei saperi frantumati, è, per ciò stesso, negato in partenza il costituirsi di quella visione dialettica che ravvisa le contraddizioni nel divenire della totalità storico-sociale. Per questo, il pensiero critico e consapevole tende oggi a cedere il passo al calcolo puramente operativo, a quei “meri uomini di fatto”, come li qualificava Husserl, che sono il prodotto delle scienze empiriche e che finiscono per agire in maniera irriflessa e non meditata in veste di semplici sacerdoti della scienza.

L’uomo di cultura, per parte sua, dedito al “pensiero pensante”, può porsi al cospetto dell’inautentico mondo dell’organizzazione totale come lo Jacopo Ortis di Foscolo che, quando incontra il promesso sposo della sua amata Teresa, borghese gretto e calcolatore, così a lei si rivolge: “tutto qui?”.

In luogo del pensiero critico e della consapevolezza storica della totalità, regnano sotto il cielo il calcolo e la competenza tecnica, la cifra e la malia della quantità misurabile. La scomposizione delle parti irrigidite e sciolte dal nesso dinamico e storicamente determinato che le connette rende permanentemente impossibile l’accesso alla comprensione della totalità storica contraddittoria.

La cultura e la formazione dovrebbero permettere ai giovani di maturare una coscienza critica del loro mondo storico complessivamente considerato, ma poi anche delle loro radici storiche e delle loro prospettive: con la sintassi hegeliana, la cultura e, segnatamente, la filosofia dovrebbero vocazionalmente porsi come il tentativo di cogliere criticamente il proprio tempo mediante concetti ed elaborazioni simboliche. Accade oggi, invece, che i Licei e le Università sempre più perseguano la via dello specialismo settorialistico e di quella che Gramsci denunciava con le categorie della “taylorizzazione intellettuale” e del "cretinismo economico".

Parcellizzano i saperi e impediscono il costituirsi di quella visione olistica su cui possono, in seconda battuta, sul fondamento degli interessi specifici e delle propensioni, svilupparsi le specializzazioni. Su queste basi, d’altro canto, si spiega la sempre più riscontrabile assenza della figura dell’“uomo di cultura”, ossia dell’individuo dotato di una sua formazione versatile, consapevole del proprio mondo storico e delle proprie radici storiche e culturali.

Privato della consapevolezza del proprio orizzonte storico, lo specialismo resta sterile e autoreferenziale: sfocia nella fredda competenza irrelata e, ipso facto, avulsa dalla dimensione culturale. Questo aspetto fa dei discenti dei semplici tecnici operativi, privi di coscienza storica delle loro radici culturali, nel totale oblio di quella distinzione tra la conoscenza tecnica e l’educazione come paideia messa a più riprese a tema dai dialoghi di Platone.

I singoli tecnici del sapere sanno sempre di più su settori sempre più limitati del reale, con la conseguenza per cui sono strutturalmente incapaci di elaborare una visione olistica, una prospettiva critica della totalità storica e sociale nella quale sono inseriti.

La prevalente logica del logo astratto, che scompone e fraziona, resta un niente affatto neutro strumento di ottundimento delle coscienze critiche e di programmatica anestetizzazione della capacità di contestare ed eventualmente trasformare la totalità alienata. Quets’ultima può essere decifrata unicamente dal logo concreto di quella ragione dialettica che – da Fichte a Gentile, da Hegel a Marx, da Gramsci a Lukács – analizza non le parti irrigidite e scomposte, ma l’intero diveniente contraddittorio sussistente nella forma del con-crescere delle parti organiche al tutto.

È, per ciò, tutto fuorché accidentale che il sapere accademico oggi egemonico sia animato da una ostentata idiosincrasia verso il sapere dialettico della totalità, variamente ostracizzato come “totalitario”, “obsoleto”, “superato” dalle scienze empiriche.

Nella forma della più grande serenata per l’ordine mondiale classista, il sapere istituzionale elaborato e propalato presso i Licei e le Università resta, pur con preziose eccezioni, la fucina del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto, l’avamposto di teorizzazione e di diffusione dei quadri simbolici dell’ortodossia funzionale alla santificazione dei reali rapporti di forza e alla convergente demonizzazione di tutto ciò che possa contestarli operativamente. Quando non si ponga come apologetica direttadell’esistente innalzato a meilleur des mondes possibile, la cultura istituzionale si profila come semplice intrattenimento per la rassegnazione.

Con la sintassi di Marx, le idee dominanti sono in ogni tempo inevitabilmente quelle della classe dominante: sono, più precisamente, i rapporti di forza dominanti elaborati in forma teorica e trasposti in versione ideologica come giusti, naturali, necessari, eterni. I saperi accademici e le elaborazioni intellettuali e giornalistiche costituenti l’odierno blocco ideologico dominante costituiscono la prova più fulgida del teorema di Marx.