Coronavirus, considerazioni politicamente scorrette

Un virus mortifero si aggira per il mondo. È il Coronavirus.
Le spiegazioni finora fornite sono tre. Una, maggioritaria, è quella che definiremo, con un termine certo brutto, ma inequivocabile, “accidentalistica”: in accordo con tale prospettiva, il Coronavirus corrisponde a una pura casualità naturale, l’analogon di uno tsunami. Non v’è una causa precisa, soprattutto nulla ha a che fare con il mondo degli uomini e della società. È lo storytelling dominante, ribadito a piè sospinto su giornali e televisioni. Il Coronavirus sarebbe accaduto, non diversamente da come potrebbe accadere la caduta di un meteorite.
La seconda narrazione sposta il focus dalla natura alla società e alla politica. Il Coronavirus – si sostiene – è un prodotto di laboratorio. Una creazione dei cinesi. Una diabolica elaborazione drammaticamente uscita dai laboratori ora in giro a seminare panico e morte. Questa spiegazione fa buon giuoco alla propaganda anticinese di certo atlantismo e, ça va sans dire, dei servi numerosissimi che anche in Italia si contano: sarebbe – si dice – colpa della Cina e del suo governo repressivo e dittatoriale.
La terza ipotesi ermeneutica orbita anch’essa intorno al tema della politica e della società. Anch’essa insiste sul fatto che il Coronavirus non è un evento accidentale di natura, ma un prodotto umano, troppo umano di laboratorio. Si distingue, però, dalla seconda pista esegetica, perché non imputa la responsabilità ai cinesi, ma alla monarchia del dollaro. Il Coronavirus non sarebbe nato per accidens. Sarebbe invece nato in laboratorio, per volontà americana. In una chiave che potremmo con diritto dire di bioterrorismo. Nessuno – a meno che sia stolto o in cattiva fede – può ignorare che già di fatto viviamo nel tempo delle armi chimiche e batteriologiche. Benvenuti nel mondo del tecnocapitalismo, che dell’etica non sa davvero che farsene. Di più, deve necessariamente abbatterla, in essa ravvisando un fastidioso limite.
Dalla sua, questa terza ipotesi ha un fatto che non deve essere trascurato, né minimizzato. È in grado, essa soltanto, di rispondere alla concretissima domanda: cui prodest? Non alla Cina, è evidente. Che ora è in ginocchio, isolata da tutto e da tutti. Perfino dalla Russia di Putin. A chi giova, dunque? Non è arduo immaginarlo. Basta rammemorare la nuova “guerra fredda” legata al 5G e al commercio. Basta, ancora, non obliare il potenziamento sempre crescente della Cina in ogni settore, dalla tecnologia all’economia: il “balzo in avanti” è stato innegabile per un Paese che, ancora fino al primo Novecento, mai si sarebbe potuto sognare di stare al passo con l’Occidente. Con buona pace delle narrazioni fumettistiche che abbinano il comunismo all’arretratezza, la Cina comunista ha, di fatto, già superato l’America turbocapitalistica: l’ha battuta sfidandola sul suo stesso terreno, là dove l’Unione Sovietica aveva penosamente fallito.
Non deve stupire, allora, che gli Stati Uniti siano tentati dal fare ricorso a ogni via per salvare il proprio primato. Anche le più subdole. Spiace dover ribadire l’ovvio. Ma, si sa, anche l’ovvio vuole la sua parte. Stiamo pur sempre parlando della nazione – l’“unica indispensabile”, a dire di Bill Clinton – che sterminò i pellerosse e sganciò due bombe atomiche. Storicamente vi ricorda qualcosa l’uso del vaiolo per sterminare le popolazioni indigene?
Si sa, la storia insegna ma non ha scolari. E, per questo, torna a ripetersi. Con tutti i suoi orrori e i suoi errori. Io non ho certezze. Solo dubbi, come dovrebbe essere proprio di quanti seguano la via tracciata da Socrate. Le certezze le hanno solo gli stolti. Quelli, tra i tanti, che ripetono ossessivamente, senza l’ombra di un’incertezza, la prima narrazione succitata, la più semplice e la più sbrigativa. Sono talmente stolti – fateci caso – che non accettano che qualcuno osi sollevare dubbi e perplessità: sarà subito silenziato e ostracizzato come complottista. È tipico degli stolti, non ce ne stupiamo.
Intanto, anche l’Italia in questi giorni ha chiuso le sue frontiere. L’ha fatto il ministro Speranza, che, salvo errore, fa parte di quelle sinistre fucsia che sempre invocano il mondo della openness e del borderless: l’ha fatto giustamente opponendosi alla Confindustria, che invocava l’apertura delle frontiere sempre in nome dei mercati. Che, dal punto di vista della ragion liberista, vengono sempre prima rispetto a tutto, e dunque anche prima rispetto alla vita umana.
Chissà, forse anche le sinistre fucsia, che tanto più ostentano l’arcobaleno quanto più hanno vigliaccamente rinnegato la falce e il martello, stanno imparando la lezione, che è peraltro semplicissima e alla portata anche di un bambino: la sovranità nazionale dello Stato e i confini non sono il segno inevitabile delle dittature genocidarie rosse e nere. Sono, invece, la base di ogni democrazia, che è poi, in ultima istanza, la possibilità della comunità nazionale di decidere sovranamente per il proprio bene comune e, in questo caso, per la propria incolumità. E ciò quand'anche i mercati non siano d’accordo. È il caso di dirlo, tanto peggio per i mercati!