Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra

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Un sacerdote e la sua gente rinnovano il loro mondo

È il 19 marzo del 1994, sono le 7:25 del mattino. È il giorno di San Giuseppe; Don Peppe Diana si trova nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe e si accinge a celebrare la santa Messa. "Chi è don Peppe?". "Sono io". Cinque colpi di pistola che risuonano nella sacrestia.Così muore don Peppe Diana ad appena 36 anni: un parroco, un capo scoutAgesci, presente e impegnato con i giovani, sempre al fianco, in modo concreto, delle persone più fragili.

Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra di Luigi Ferraiuolonarra tutto ciò che è successo dopo quel giorno, ci racconta della caduta di Gomorra, una caduta innescata proprio da quel martirio, dal contesto sociale in cui quel brutale omicidio era stato perpetrato, dalla rivolta umana e culturale da parte di chi ha deciso di creare un mondo diverso, attraverso la nascita di cooperative sociali di ragazzi disabili, disagiati, ex detenuti: un mondo che oggi vanta vere e proprie imprese che danno lavoro e creano sviluppo per il territorio in cui sono sorte.

Questo libro ci porta, quindi,nelle terre di don Peppe, che non sono più quelle in cui maturò il suo omicidio. Per comprendere meglio la situazione attuale, l’autore ci racconta la storia di quegli anni, del Natale del 1991 e della lettera scritta da don Peppe con altri parroci del territorio "Per amore del mio popolo non tacerò". Ci accompagna attraverso tutto ciò che è successo dopo, come la nascita, ad esempio, della NCO, che da quel momento non sarebbe stata più la sigla della Nuova Camorra Organizzata ma della Nuova Cucina Organizzata perché “Panza chiena, camorra vacante”: “È subito chiaro che qui, nel fu regno di Gomorra, ci sono dei mattacchioni che si sono divertiti a prendere in giro i camorristi tutti boria e testosterone, e in particolare i clan della zona, i più violenti e potenti di tutta la camorra. L’ironia, infatti, è il modo forse più efficace, insieme con il coraggio che serve per esercitarla, per smitizzare i boss e i loro killer, facendoli ridiventare persone normali. Anzi, spesso meno che normali”.

Luigi Ferraiuolo ci racconta come è nata l’idea di questo libro e che cosa si intende con “Caduta di Gomorra”. E ci regala una importante riflessione sulla situazione attuale, in tempo di pandemia, con gli effetti economici e sociali che da ormai un anno questa situazione sta avendo in tutto il mondo e in particolare nel casertano.

Luigi, come è nata l'idea del libro?

La causa occasionale del libro è stata semplice: raccontare quello che è successo a Casal di Principe dopo la morte di Don Peppino Diana. La rivoluzione nata in quel territorio, che lo ha fatto diventare uno dei pochi, forse l’unico dove lo Stato ha sconfitto la mafia militare, la camorra del clan dei casalesi. I falsi casalesi: i boss; perché i casalesi sono gente per bene. La causa recondita, quella strutturale, è che vedevo ormai da anni – essendo il direttore della Scuola di Giornalismo investigativo di Casal di Principe – la trasformazione che veniva vissuta nel territorio ma nessuno la raccontava. E la spinta a volerlo fare cresceva sempre di più. Perché se non si raccontano i miracoli, gli straordinari successi che si ottengono nelle nostre terre, quando ci sono, rimarremo sempre marchiati a vita. Perciò, avendo vissuto quegli anni dalla mia postazione privilegiata nella Curia di Caserta, dove don Peppe aveva trovato casa nel cuore del vescovo, monsignor Raffaele Nogaro, sentivo mio il bisogno di giustizia di raccontare quanto di buono aveva fatto per il Casertano.

Perché nel titolo si indica "la caduta di Gomorra"?

La caduta di Gomorra vuole indicare proprio questo. L’uccisione di don Peppe Diana, che per molti è stata vista come il punto più alto della ferocia e della potenza del clan, è stata in realtà il punto di caduta, di non ritorno della camorra casertana. Da quel giorno il clan ha cominciato a morire. Se avessero potuto, sarebbero tornati indietro e avrebbero fatto un monumento a don Diana. La caduta di Gomorra indica anche la grande trasformazione in corso a Casal di Principe, San Cipriano D’Aversa e Casapesenna, dove le persone non hanno più la necessità di andare via. Possono sperare di costruire qualcosa nella loro terra, non hanno come unico punto di riferimento i clan. Adesso ci sono anche le terre di don Diana. Le possibilità di lavoro nei beni confiscati. La voglia di fare di chi opera nei beni liberati dalla camorra. Bisogna raccontarla e dargli forza, perché non è la galera, ma la possibilità di prendere in giro la camorra e di poter lavorare l’arma più forte contro le mafie. Chi lavora e studia, è libero autonomo e pensa con la sua testa. Questa è la caduta di Gomorra. Un ruolo fondamentale in questo percorso hanno svolto i budget di salute inventati dal dottor Rotelli, geniale medico del Nord, che a lungo ha diretto l’ASL di Aversa importando metodi provenienti direttamente dalla scuola di Basaglia nella cura dei malati psichici. Queste metodologie hanno dato molta linfa alle buone cooperative della zona dell’Aversano. Poi questo aspetto è sembrato venir meno. Speriamo che il presunto forte giro di malaffare nella gestione sanitaria del territorio negli ultimi anni, svelato dalla Procura di Napoli Nord in questi giorni, non c’entri con le scelte che hanno limitato i budget di salute alle cooperative.

Quanto il Covid e la situazione correlata di nuove povertà e lavoro nero/sommerso influiscono sulla situazione della zona di Casal di Principe e del casertano?

La pandemia sta aggravando molto la situazione economica, già pesante, del casertano. Da un lato c’è un fenomeno usura in continua ascesa con la penetrazione nel reticolo delle imprese sane di molte teste di ponte della criminalità; dall’altro lato la crisi economica che sta investendo tutto il Paese qui morde ancora più forte. In particolare nel triangolo Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d’Aversa, da un lato depriva le aziende sane del territorio: nello stesso tempo qui esistono antichi bubboni che rischiano di scoppiare al grido «meglio la camorra», se non si interviene subito. Uno di questi è il paradosso delle case abusive. A Casal di Principe ci sono centinaia di abitazioni abusive, che in realtà non lo sono perché sono abitazioni di famiglie vere. Solo che sono state costruite per le esigenze delle famiglie – non per speculare o con uno spirito contra legem - quando il Comune non esisteva in pratica – era in mano al clan – e si costruiva senza concessione edilizia, allacciandosi naturalmente senza pagare e senza dover chiedere permesso – perché così ti dicevano al Palazzo di Città - all’acqua o alla luce pubblica, che fungeva da fornitore di luce privata. Ecco, lì, contrariamente al mantra degli ecologisti, le case dovrebbero essere sanate. Perché era lo Stato ad essere assente in quei tempi, non i cittadini. La colpa di quegli abusi è dello Stato che voltava la testa dall’altra parte.