Economia finanziaria. Il capitalismo non è malato, è la malattia

Tra le tendenze coessenziali al turbocapitalismo finanziario – nell’apoteosi dell’impotenza dell’uomo e della strapotenza dell’apparato tecnico – vi è quella che mira a demonetizzate l’economia e a finanziarizzarla integralmente, traslandola nei circuiti bancari della speculazione. In tal guisa – ed è l’ennesimo luogo epifanico della vera essenza del capitalismo assoluto – non si genera sviluppo, ma solo lucro per le forze del mercato che estraggono la ricchezza in modo rapinoso e parassitario.
Ciò, peraltro, avviene nel quadro di un rovinoso giuoco a somma zero, in cui ciascun attore si arricchisce sottraendo ad altri e, insieme, per via dell’indebitamento generale e sempre crescente della società verso le banche, ciascuno può salvarsi solo se depreda gli altri.
Per questa via, si rinsalda, oltretutto, uno dei fondamenti della società competitivistica di ordine liberista dei lupi hobbesiani, performanti e competitivi. Essa dissolve ogni legame comunitario solido e solidale nell’atto stesso con cui generalizza in ogni ambito il principio della lotta neocannibalica per la sopravvivenza mediante competizione: la norma del do ut des si accompagna inconfessabilmente sempre a quella del mors tua, vita mea.
Ogni “social catena” è interrotta anche tra coloro i quali tutto l’interesse avrebbero a consociarsi e a organizzarsi in forza corale per rovesciare l’ordine dominante. Come evidenziato da Michéa, il neocannibalismo liberista fa “dissolvere l’idea stessa di vita comune in un nuovo universo di concorrenza totale”.
In luogo della social catena, prevale la monadolologia liberal-libertaria del competitivismo neocannibalico, che disgrega il tessuto sociale e ogni equilibrio possibile della comunità umana con se stessa e con l’ambiente circostante. Nel tempo della ratio divenuta autorità irrazionale, l’inferno non sono gli altri, secondo il teorema di Sartre (l’enfer, c’est les autres): sono, semmai, gli insensati rapporti con gli altri, determinati dal modo reificato della produzione.
Un semplice esempio può giovare a una comprensione di questo plesso teorico: immaginiamo una comunità collocata nei pressi di un lago pescoso. Essa si autoregola, in modo da non pescare più pesce rispetto a quello che si rigenera. In tal modo, la comunità può garantirsi una forma di alimentazione stabile e sicura.
Immaginiamo che il lago venga privatizzato e passi sotto il controllo di un gruppo di “investitori stranieri”: per il tramite della privatizzazione e della liberalizzazione (e anche in virtù del disinteresse verso le sorti di una comunità e di un ambiente che non sono i propri), gli investitori esteri scatenano la competizione per la cattura e la vendita del pesce (di quanto più pesce è possibile), depredano il territorio e, infine, lo distruggono, privandolo il lago dei pesci e delle specificità che garantivano in precedenza l’equilibrio della comunità con se stessa e con l’ambiente. È questa, in effetti, la tendenza fondamentale del capitalismo, in ciò simile al cancro: esso depreda e annienta il territorio che lo ospita, per poi spostarsi verso nuove aree a cui riservare il medesimo trattamento.
Nel quadro del capitalismo speculativo post-nazionale, le bad companies traslano i costi verso la collettività e riversano il patrimonio aziendale in nuove compagnie che vengono prontamente privatizzate, risulta di una chiarezza adamantina il fatto che le banche non si limitano a intermediare il risparmio e a esercitare il credito. Creano anche mezzi monetari.
Il cosiddetto “signoraggio” consiste in siffatto gesto dell’impadronimento del potere di acquisto di ricchezza reale in assenza di un valore reale dato in cambio. È, in altri termini, la facoltà di emettere moneta avente potere d’acquisto indipendente dal suo valore proprio. Tale processo è favorito dal programma condensato da von Hayek nella formula denationalization of money.