Elogio di Ratzinger e della sua resistenza alla dittatura del nichilismo relativistico

Nelle parole e negli scritti di Ratzinger, erano la tradizione filosofica aristotelica e quella teologica medievale che si rinnovavano per porsi come ultimo baluardo veritativo di contrasto rispetto alla dirompente avanzata del nichilismo relativistico prodotto dai mercati, imposto dalla global class dominante e celebrato come emancipativo dal neoprogressimo edonista dalla tonalità arcobalenica.
Con la potenza del concetto e con la tenacia di una fides quaerens intellectum, Ratzinger si era posto come defensor fidei a partire dal cuore dell’Europa stessa, ossia dal punto nevralgico, dall’epicentro del cataclisma nichilistico.
Se letta in trasparenza, la sua non era semplicemente una difesa rigorosa della fede cristiana, ma, più in generale, della filosofia e della civiltà occidentale – dei suoi valori e delle sue tradizioni, delle sue radici e del suo pluristratificato impianto concettuale – contro il relativismo neoedonista, vacuo e postmoderno della civiltà dei consumi.
In non rari casi, peraltro, Ratzinger univa alla denuncia del nichilismo relativistico un’accusa niente affatto velata ai suoi principali agenti sociali: così, ad esempio, nell’Enciclica Caritas in veritate del 2009, egli indirizzava i suoi strali contro la“classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi” (§ 40).
Sottoponendo a una sferzante requisitoria l’assolutismo della tecnoscienza, Ratzinger si spingeva a invocare non già la creazione di settori etici della finanza, ma una complessiva rieticizzazione del mondo economico nella sua interezza, di modo che la nichilistica auri sacra fames venisse vinta dall’amore di Dio e delle sue creature: “occorre adoperarsi — l’osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti ‘etici’ dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche” (§ 45).
In sostanza, sul piano stricto sensu filosofico-teologico, Ratzinger ripartiva là dove Nietzsche e Heidegger avevano lasciato i loro “sentieri interrotti”, dalla diagnosi epocale del nichilismo come “ospite più inquietante” e come fondamento ultimo di un mondo senza fondamenti: la sfida di Ratzinger interpellava la tradizione filosofica e teologica dell’Occidente come sola base in grado di costituire una possibile risposta e, forse, una possibile salvezza rispetto al nihil in fase di avanzamento.
Il fuoco prospettico attorno al quale orbitava la lezione di Ratzinger era la rifondazione di una prospettiva veritativa, che tornasse a saldare tra loro ragione e fede, secondo la prospettiva anselmiana della fides quaerens intellectum, per resistere alla disgregazione in atto, nell’Occidente nichilistico, sia della fede, sia della ragione. Con le parole dell’Enciclica Caritas in veritate, “ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo” (§ 74).
Il presupposto primissimo consisteva, per Ratzinger, nell’assunzione di un fondamento metafisico e teologico irrinunciabile, da cui discendessero quei “valori non negoziabili” a cui egli così spesso si appellava. Celebrata dalle retoriche postmoderne precorse da Foucault e dalla sua identificazione tra verità e autoritarismo, la decostruzione post-metafisica dei fondamenti era ciò a cui Ratzinger, con vigoria intellettuale, si opponeva.
Vi ravvisava l’opposto dell’emancipazione celebrata dalla tribù postmoderna: “l’uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento” (Caritas in veritate, § 53). Lungi dal generare emancipazione e dialogo, la demolizione postmoderna e relativistica dei fondamenti generava, per Ratzinger, l’alienazione e la fine di ogni possibile autentico dialogo.
In antitesi con le dominanti grammatiche del neoprogressismo liberista e postmoderno, Ratzinger, infatti, non concepiva il vero dialogo come apertura tra interlocutori svuotati della loro identità “forte”: al contrario, a suo giudizio, l’autentico “dialogo interculturale” presupponeva “l’intima consapevolezza della specifica identità dei vari interlocutori” (§ 26). Analogamente, il giusto concetto di “libertà religiosa” non doveva in alcun caso fondarsi, per lui, sul rigetto del concetto di verità e su una sorta di relativistica indistinzione universale. Doveva, al contrario, presupporlo: “la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali” (§ 55).
Il dialogo tra le culture e le religioni deve, per Ratzinger, avvenire sul fondamento della comune natura umana, che a sua volta è immagine di Dio e che è chiamata a seguire la legge naturale:
“In tutte le culture ci sono singolari e molteplici convergenze etiche, espressione della medesima natura umana, voluta dal Creatore, e che la sapienza etica dell'umanità chiama legge naturale. Una tale legge morale universale è saldo fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e politico e consente al multiforme pluralismo delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca del vero, del bene e di Dio” (§ 59).