Il cinema nucleare

Fonte Immagine: contropiano

Il mondo del cinema è bello perché vario. Eppure, tale varietas si fonda su concetti fondamentali rimasti praticamente intaccati dalle origini della settima arte ad oggi. È innegabile che il cinema, fin dai suoi albori, venne immaginato come medium essenziale per predire e prevedere eventuali derive future della realtà di cui esso si nutriva. Mentre infatti i fratelli Lumière, definitivi diffusori dello strumento cinematografico, avevano riconosciuto nella cinepresa la possibilità – ad ogni modo non da poco – di immortalare il vero e il quotidiano e renderlo fruibile ovunque e a chiunque, le generazioni successive a partire da Georges Méliès in poi vollero tentare una strada ancor più ambiziosa. Se era vero che il cinematografo era capace di mettere in scena tutto ciò che ci circondava, doveva pur esistere l’eventualità di imprimere su quei sostegni di celluloide e poliestere le “illusioni” del vero. Non è un caso che uno dei più grandi cineasti della storia primordiale del cinema – il sopracitato Méliès – fosse nato come prestidigitatore e illusionista, arrivando persino a convertire un suo vecchio saloon dedicato a eventi di magia e intrattenimento in una delle prime sale di posa e di proiezione. Siamo nella Parigi tra fine ‘800 e inizio ‘900. Il cinema ha appena emesso i suoi primissimi vagiti ed ecco che già il suo macchinario meraviglioso inizia a travalicare i confini della realtà, a sovvertire i principi-cardine della nostra esistenza: il tempo si ferma, si riavvolge, scorre più velocemente del normale (a tal proposito, Paris qui dort di Renè Clair, in cui la capitale parigina vede il suo continuum spazio-temporale continuamente disturbato dall’intervento di un’invenzione capace di manipolare il normale avanzamento delle lancette) mentre vengono esplorati spazi sconosciuti, inusitati, appena pronosticabili (è il caso del primo “viaggio sulla luna” svolto da Méliès e dalla sua ciurma in Voyage dans la lune). 

Non sempre però i tempi e gli spazi escogitati e riprodotti sul grande schermo hanno speculato su tematiche positive. Come in ogni genere di produzione artistica, ovviamente, alla base del processo d’ispirazione di ciascuno dei grandi maestri che hanno contraddistinto questa modalità di espressione vi è la Storia. E, al di là delle varie retoriche progressiste dei vari Condorcet et similia, retaggio di una società idealista molto lontana da quella in cui viviamo, si può dire tranquillamente che gli spunti offerti dalla disciplina spesso citata con la “s” maiuscola siano raramente giocondi e raggianti. Se giungiamo, tra le pieghe del tempo, al nostro presente, non ci sembrerà per nulla inaspettato scoprire le mille insicurezze e paure che scorrono sottopelle al nostro secolo. L’incertezza più evidente in cui stiamo vivendo è certamente legata, da più di due mesi a questa parte, dal conflitto in Ucraina. Le continue diatribe tra il blocco Nato e l’ex (?) Unione Sovietica non accennano ad allentarsi e più volte sono stati prospettati panorami futuri per nulla rassicuranti, conditi dall’utilizzo di armi nucleari. Un destino che nessuno può augurarsi e che, soprattutto il mondo cinematografico, ha sempre tentato di rappresentare allo scopo di tenerci alla larga da esso. 

Tra gli esempi più lampanti, di certo non può mancare Hiroshima mon amour, uno dei lungometraggi cult dell’indimenticato Alain Resnais. In un'Europea ancora sconvolta dai drammi e dalle allucinazioni della seconda guerra mondiale, il maestro della Nouvelle Vague volle dedicare uno spazio alle vittime di uno degli eventi più tragici dell’evoluzione umana: lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. L’amore che si instaura tra una donna francese e un “autoctono” di Hiroshima darà luogo ad un’immaginaria carezza, una presa di responsabilità oltre alla volontà di tendere la mano per trovare la forza di ricominciare da parte dell’Occidente degli Alleati e della cultura avanzata ad un Giappone condannato ad essere sottoposto alla peggiore delle sciagure “artificiali” mai ideate. 

Stanley Kubrick, dall’alto del suo ingegno sopraffino, seppe rielaborare la follia dell’atomica in una salsa comica irresistibile mescidando satira e ironia, dando vita ad un risultato incredibile. Il dottor Stranamore (ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba) è un documento imperdibile di un’epoca, capace di recuperare tensioni, angosce, conflitti di intere generazioni e riversarle su uno schermo con un tono leggero ma mai fine a sé stesso. 

Negli anni ’80, con Atomic cafè, Jayne Loader volle ricostruire un documentario capace di raccontare storicamente i passi che condussero a quella follia. 

Il tema della guerra nucleare verrà rielaborato in più versioni da tantissimi registi anche nella nostra età contemporanea: Steven Spielberg ne L’impero del sole mostra la terribile deflagrazione dell’ordigno attraverso gli occhi di un bambino inglese fatto prigioniero in un campo di concentramento locale. Numerosi sono poi gli avvistamenti di minacce nucleari all’interno dell’universo fumettistico e dei derivativi film a tema supereroistico, nonché nel mondo della spy-fiction. Pensiamo, solo per fare qualche esempio conclusivo, a Superman IV, ai Watchmen, o a 007: Missione Thunderball.

La guerra nucleare è sempre stato un argomento capace di affascinare e al tempo stesso turbare la psiche di centinaia di registi e sceneggiatori. Le rielaborazioni sono state infinite, ma su di una cosa è impossibile non essere tutti concordi: la necessità che simili immagini continuino a rimanere legate solo a supporti digitali ricreativi e che non tornino ad essere materia di studio della disciplina con la S maiuscola.