Il mito regressivo del progresso

Il mito regressivo del progresso si fonda sull’idea della crescita senza misura e senza variazione qualitativa, in una sorta di aumento che sine die differisce la dialettica conversione della quantità in qualità. Per questo, il nichilismo accelerazionista e aprospettico si fonda sulla mutazione eraclitea, funzionale al profitto ed esprimentesi in modo paradigmatico nel rito della moda e del consumo, e, insieme, sulla conservazione a tempo indeterminato del mondo congelato nella morsa della reificazione. Secondo il più classico esempio della Säkularisierungstheorie nella sua formulazione löwithiana, l’ipermodernità capitalistica si trova, infine, a combattere contro i suoi stessi presupposti cristiani: la guerra alla religione condotta dal tecnocapitalistico è anche, non secondariamente, un conflitto contro l’idea di un futuro escatologico distinto rispetto al regno dell’alienazione. Come suggerito anche da Pietro Prini nel saggio Il Cristiano e il potere. Essere per il futuro, l’ἔσχατον inaugura una temporalità che è futuro assoluto, indipendente dall’uomo, totalmente altro rispetto al passato e al presente e tale da irradiare sul tempo dell’uomo i tratti della non esaustività del senso della storia: un futuro così concepito, sul quale possano poi incastonarsi progetti politici di utopie redentive, non solo non appare funzionale al regno dei mercanti e degli usurai cosmopoliti, ma, di più, si configura incompatibile e già sempre potenzialmente in conflitto con esso.
È anche per questo che il turbocapitalismo, fin dal 1989, prova cerimonialmente a contrabbandare se stesso come il tempo dell’end of history e del futuro compiutamente attuato negli spazi del presente, ideologicamente mutato in gabbia d’acciaio con necessaria richiesta di quieto adattamento per i suoi internati. Ogni rinascenza possibile del messianismo politico e religioso è negata aprioricamente dagli aedi della società frammentata, che in tale rinascenza ravvisano i tratti del ritorno alla violenza utopica e al fanatismo religioso. Il regime temporale coessenziale al mito del progresso è quello dell’essere-senza-tempo, ove tutto muta incessantemente, secondo le strategie della valorizzazione del valore, e graniticamente immutato resta l’orizzonte della civiltà dei consumi, innalzata a fato inemendabile e a “gabbia d’acciaio”. Per questo, nell’evo del materialismo ateo e del progressismo non messianico si eclissano, in forma solo apparentemente contraddittoria, la speranza che - come suggerito da Marcello Veneziani in "Dispera bene" - le cose possano durare e, insieme, la speranza che le cose possano mutare. Spariscono il futuro del progetto, il passato della tradizione e l’eterno del sacro: resta soltanto il “presente accelerato” del fare totalmente amministrato dall’impianto tecnocapitalistico.