L'ultimo dispaccio di Wes Anderson

Fonte Immagine: thinkmovies

Esistono sempre, di anno in anno, quei film di cui si parla ancor prima della loro uscita nelle sale. Film su cui nascono polveroni, montano casi. L’ultimo lavoro di Wes Anderson, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun – o anche, per semplicità, The French Dispatch – rientra a pieno titolo nel novero di queste pellicole.

Andiamo per gradi. Partiamo dal cast. Forse poche volte, nonostante non si tratti di un unicum nella produzione del regista texano, è stato possibile vedere affiancati tanti nomi legati all’universo dello star system hollywoodiano. Tra l’altro, in uno spazio particolarmente compresso: circa un’ora e quarantotto minuti. La vicenda, spezzettata in piccoli episodi formato tapas, trova il modo di accogliere al suo interno firme dall’alta risonanza: ci sono Adrien Brody e Owen Wilson, già agli ordini di Anderson in Il treno per il Darjeeling; c’è la fresca vincitrice dell’oscar come miglior attrice Frances McDormand; e ancora, un Timothee Chalamet capace di prendersi più alla leggera dopo l’impegnativa esperienza sul pianeta Arrakis in Dune. Compaiono poi anche la Bond-girl Léa Seydoux, l’indimenticato acchiappafantasmi Bill Murray, un imperscrutabile Benicio del Toro. C’è tempo persino per qualche istantanea sortita di altri talenti cristallini come Christopher Waltz e Willem Dafoe. Insomma, se un libro si giudica dalla copertina – o, in questo caso, dalla locandina – The French Dispatch può certamente fregiarsi di una splendida “prima”.

Ma veniamo alla struttura dell’opera. Il film viene immaginato in una immaginaria cittadina francese (Ennui-sur-Blasé) e ha per oggetto l’ultimo numero stampato del French Dispatch, adibito a memoriale delle fortune del giornale dopo il decesso di Arthur Howitzer, suo storico direttore. Per l’occasione, lo staff del Dispatch accetta le volontà del defunto di fermare le rotative dopo un’ultima sgargiante edizione insaporita dalla pubblicazione dei tre articoli più insoliti e interessanti comparsi sulla gazzetta. E in effetti, le tre storie selezionate hanno un che di bizzarro: la prima tratta delle altalenanti fortune di un bizzarro pittore rinchiuso per anni in un carcere di massima sicurezza; la seconda ci racconta di accorate rivolte studentesche condotte a suon di partite a scacchi mentre la terza ed ultima narrazione indaga sul salvataggio di un bambino grazie all’intervento di uno chef-tenente di polizia.     

Già dalla breve descrizione appena fatta, è innegabile la presenza di un radicato esprit andersoniano a fare da filo rosso nei vari episodi che compongono il lungometraggio. Evidente è, innanzitutto, la dolce e romantica dedica di Anderson al giornalismo d’altri tempi, in particolare alla scrittura narrativa e quasi romanzesca che, per molti anni, aveva caratterizzato le pagine del suo adorato New Yorker. La stampa, attraverso le lenti deformanti di questa pellicola, assume la funzione di un periscopio, non tanto interessata a sbattere in prima pagina notizie superficiali e striminzite, ma volenterosa di toccare con mano le sensazioni e le azioni dei protagonisti, abbandonando la tanta decantata neutralità dell’editorialista. Cosa che non significa (come spesso vediamo accadere oggi) rivestire gli avvenimenti di una malcelata patina ideologica opportunisticamente adottata, bensì imprimere maggior pathos alle notizie, in quanto non semplici lettere su di un foglio ma “misteriosi atti nostri” per dirla alla Tozzi. Concezioni che, vuoi per la globalizzazione del mestiere del reporter, vuoi per l’universalizzazione della possibilità di commentare eventi e accadimenti, hanno finito per abbandonare il nostro secolo. Nel turbinio di voci che ci assalgono quotidianamente, non c’è nemmeno il tempo per dedicarsi ad una lettura più approfondita e consapevole delle cose; e così tutto ciò che resta è l’accumulo di informazioni, fulminee e impersonali informazioni.

D’altro canto, l’altro concetto che Anderson vuole (e riesce perfettamente) a trasmettere è l’idea di sospensione della realtà. Ogni volta che si assiste ad un girato venuto fuori dalla mente del director di Houston, in effetti, si ha l’impressione di imbarcarsi in un viaggio fantastico. Se vi dovesse capitare di avvertire piedi e testa più leggeri nel corso della proiezione non allarmatevi: rientra nel normale effetto Anderson. Inutile scervellarsi alla ricerca di profondi significati dietro alle cose, vano il tentativo di creare collegamenti lynchiani tra le inquadrature. The French Dispatch è fatto per essere goduto dal primo all’ultimo minuto e conclude la sua esperienza sullo schermo, laddove è nata, e non tra le intricate elucubrazioni di qualche critico illuminato. L’opera scorre via come una lunga favola, tra tempi e luoghi irreali, dilatati, che accarezzano la fantasia dello spettatore senza mai turbarlo. L’effetto di tregua dal vero è poi comunicato anche dall’estrema variazione formale di cui Anderson si serve. Più che di un film, sembra di parlare di un grosso calderone, un cantiere in piena regola. Anderson sperimenta col colore (il vecchio b/n per il ricordo, il ritorno delle tinte che coincide con il presente, in perfetto stile Resnais), col formato (dai 16:9 ai 4:3 a seconda del focus che si vuole imprimere alla scena), col genere (dal comico al tragico, passando perfino per il toon animato durante un rocambolesco inseguimento). Qua e là è poi possibile notare altri dei suoi espedienti preferiti che aggiungono il tocco finale all’impianto favolistico della pellicola: dalle lunghe carrellate laterali su strutture e macchine scoperchiate, al ricorso ad inserti teatrali; dall’abbattimento della quarta parete all’utilizzo di ambientazioni chiaramente disegnate o ricostruite (chiaro riferimento alla scuola impressionista francese).

In poche parole, un prodotto molto europeo e davvero poco americano, che fa compiere a Wes Anderson un altro deciso passo verso il cinema d’autore del vecchio continente, respingendo le pur tanto attraenti sirene degli spettacolarismi tipici dei girati hollywoodiani. Il risultato è un piccolo gioiello: breve, conciso, delicato, diretto. Una bomboniera che, di certo, non soddisferà il palato di tutti ma che ad un occhio più allenato non potrà che risultare degno di lode.