La "dittatura" cinematografica

Fonte Immagine: weschool

«Mondo e teatro». Queste le due parole che echeggiano nella prefazione alla scintillante parata di commedie redatte da Carlo Goldoni attorno alla metà del 1750. La penna de La locandiera aveva avviato, grazie alle sue esperienze da commediografo itinerante al servizio della Serenissima, un’enorme riforma del medium teatrale. La commedia dell’arte aveva ceduto il passo a un nuovo modus operandi. Non più al centro maschere stilizzate, canovacci striminziti e improvvisazioni più o meno riuscite; era giunto il tempo di spostare il focus sulla figura dell’autore. Si transita così nell’era dell’approfondimento, dello scandaglio psicologico dei personaggi, che si mostrano in tutte le loro note e sfumature; si sviluppa un copione integrale, imprescindibile per i singoli attori; la messinscena si trasforma in un atto di perfezionamento continuo, tentativo dopo tentativo, con una (adesso) chiara linea guida. Natura umana è quella di non approvare a primo acchito un’innovazione. Prendendo in allegro prestito le parole di Aristotele, potremmo dire che l’uomo è un animale conservatore, ancor prima che sociale. Di questo Goldoni era estremamente consapevole. A dare conto di ciò, le numerose pagine di autobiografia apologetica redatte dallo stesso intellettuale veneziano (il quale amava dipingersi come un incompreso, perseguitato dalla sfortuna e dal giudizio degli invidiosi) e la forte scelta di trascorrere gli ultimi anni della sua vita a far carriera oltralpe (scelta, a dire il vero, rivelatasi infelice). L’Italia non era ancora pronta ad accettare lo scardinamento di alcuni dogmi.

Goldoni, nell’attuazione della sua rivoluzione su palco, era conscio di dover dare spiegazioni a due interlocutori molto difficili: il pubblico e il cosmo di attori, committenti e impresari. Mondo e teatro. Non solo fonti di ispirazioni per gli sceneggiati, ma anche fruitori finali cui dare conto. Goldoni sapeva bene che, prima che trattarsi di uno spettacolo artistico, il teatro era una colorata e nobilitata ditta economica, il cui scopo principale era accontentare i gusti degli spettatori paganti rispettando la tradizione e gli usi ormai depositati, sintomo di guadagno sicuro e lavoro sereno per i mestieranti legati all’industria del palcoscenico. Il commediografo veneziano decise però di rompere con la monotonia che lo aveva preceduto: non si sarebbe piegato alle continue riproposizioni di commedie scialbe, votate all’avventuroso o al facile equivoco, ma avrebbe alzato la posta presentando divertenti ma impegnate scene di realtà quotidiana.

L’esperienza “ribelle” di Goldoni dietro il telo del sipario può esserci molto utile per comprendere un fenomeno caratteristico anche dell’universo cinema. Tra gli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo, Hollywood mise in atto un sistema di realizzazione delle pellicole che prese il nome di “cinema classico”. Una vera e propria grammatica comune, delle orme nella sabbia da seguire per chiunque avesse voluto girare anche solo un metro di nastro. Il neonato codice di linguaggio investiva vari settori della produzione filmica: le inquadrature venivano codificate e riutilizzate in modo scrupoloso solo in determinati e prescritti casi. Per fare alcuni esempi: il montaggio alternato era sintomo di inseguimenti; campo e controcampo erano il marchio di fabbrica per le scene dialogiche, i piani sequenza comparivano soprattutto nelle scene iniziali delle opere, utili a creare nello spettatore un’immagine mentale dell’ambientazione.

L’imposizione ai cine-spettatori del nuovo lessico del cinema classico, non si limitava agli aspetti prettamente formali della realizzazione filmica. Anche le vicende narrate dovevano seguire un andamento comune: pochi fronzoli e digressioni secondarie, passo lineare e chiaro, un’evoluzione dell’intreccio rasserenante e gratificante. In questo modo la storia doveva palesarsi limpida ed evidente sullo schermo, impedendo distrazioni all’osservatore e distaccandosi da aggraziati ma intricati sfarfallamenti poetico-metaforici. La nuova estetica, frutto delle precedenti esperienze di registi come Griffith, venne adottata da tutte le majors americane e (di conseguenza) divenne un must per – praticamente – qualsiasi produzione cinematografica occidentale. Tra commedie sentimentali e musical, si sprecava la quantità di trame trite e ritrite che venivano date in pasto alla folla pagante, ben felice di poter sprofondare nei seggiolini di un multisala e sorbirsi l’ennesimo racconto romantico condito da un immancabile lieto fine.

L’uniformarsi ad un polo rappresentativo largamente diffuso, come abbiamo visto, è spesso risultato essere la soluzione vincente per venire incontro ai desideri di tutti coloro che, di questo o di quel mondo e a vario titolo, facevano parte. Eppure a spingere troppo l’acceleratore sul “teatro” (ovvero le inclinazioni dei fruitori finali di un’opera) si può finire per dimenticare il “mondo” (cioè una più attenta e catartica raffigurazione della realtà).

Era questo il messaggio che, nella prefazione alla sua riforma, Goldoni voleva trasmettere. E sarà questa la sfida che, dagli anni ’50 in poi, un particolare movimento cinematografico raccoglierà. Erede dell’ondata di sovvertimenti prodotta dal Neorealismo, una giovane frangia di autori francesi aveva cominciato ad ideare pellicole in evidente rottura con i canoni precedenti. Godard, Truffaut, Resnais. Cineasti di profonda cultura, decisi a rendere la camera da presa uno strumento di cattura della realtà. Vennero così a mancare i tanti artifici retorici usati dal cinema classico, le inquadrature ad effetto, le costose attrezzature. Le nuove stelle del grande schermo diventano personaggi d’ogni giorno, non più conclamati attori professionisti. L’azione viene ripresa in piccoli e familiari ambienti domestici, se non immortalata direttamente en plen air. Avviene lo smascheramento del vecchio sistema classico, della “dittatura” di un cinema fin troppo diffuso per essere (fino ad allora) contestato.

E forse l’epopea di Carlo Goldoni, il guanto di sfida lanciato dai fautori della Nouvelle Vague, deve oggi come oggi apparirci come uno stimolo. Un invito a riflettere sul fatto che un’alternativa esiste sempre e può essere adoperata, per quanto appaia, inizialmente, come qualcosa di irraggiungibile o sconveniente. Un monito per far sì che ogni assolutismo di questo genere venga presto infranto, poiché non sempre ciò che piace a tutti o è da tutti accolto corrisponde alla scelta migliore in assoluto…