La caverna di Platone e noi. La tirannia dell'immagine

L’allegoria della spelonca fa brillare, con l’immediatezza dell’inconcettuale, la falsità del tutto e l’esigenza di abbandonarlo verso un mondo altro, più vero. Ciò dipende anche dal fatto che la forza dell’inconcettuale e del mito è, forse, quella che più risulta in grado di contendere con lo strapotere dell’apparato tecnocapitalistico: se in quest’ultimo tutto è funzionale e nulla è significativo, con il mito e con l’inconcettuale ci troviamo al cospetto di un significativo che è, insieme, non funzionale, sottratto al circuito automatizzato del produrre e del servire. Qualora un mondo storico riesca a convincere le menti dei suoi abitatori di essere l’unico possibile, l’omologazione degli individui, ossia la loro incapacità di pensare l’alterità, di programmare futuri alternativi e di praticare forme concrete del dissentire, può dirsi compiutamente realizzata. Solo allora può essere allentata la presa sui corpi, poiché ormai è totale quella sulle coscienze. Secondo la metaforica platonica, si possono sciogliere i vincoli materiali, in ragione del fatto che l’anima stessa è robustamente incatenata e indisponibile per quella conversione che, rovesciando la prospettiva egemonica e compiendo – spinozianamente – la intellectus emendatio, è la base ineludibile per ogni anabasi verso la luce.
Secondo le coordinate concettuali dell’antro, se gli incatenati ritengono che lo spazio blindato della spelonca di cui sono prigionieri sia il solo o, comunque, le meilleur des mondes possibles, la cattività raggiunge il suo grado di intensità massimo: si presenta, appunto, come schiavitù simbolica di chi accetta, con ebete euforia o con disincanto nichilistico, la propria condizione perché non ne avverte la reale essenza, né è capace di immaginarne un’altra, diversa e migliore. Non v’è, allora, esigenza, per i gestori della grotta, di reprimere gli eventuali dissidenti che, convertiti, vogliono – come nella versione di Diderot – risalire lungo la strada che conduce fuori dallo spazio totalmente amministrato: sono i prigionieri stessi che, avendo metabolizzato nel proprio petto il comandamento del ne varietur, desiderano permanere in quella realtà sotterranea, vivendo come libertà la schiavitù e come imprigionamento l’eventuale liberazione. La pluralità polifonica dei punti di vista e delle visioni può essere pacificamente metabolizzata dalla caverna e dai suoi amministratori, dacché tale molteplicità non soltanto accetta il dogma fondamentale del mondo storico, la sua intrascendibilità: di più, lo rende invisibile, in quanto lo occulta dietro il vorticare policromo degli stili di vita, delle prospettive e delle screziature.
Con la sintassi di Adorno, l’onnipotenza della repressione e la sua invisibilità coincidono in tutto e per tutto. Le esteriorità, le eccedenze e i possibili altrove, collocati al di là del mondo omologato sotto il segno della merce, permettono di considerare quest’ultimo da un punto di vista differente, che non sia quello già inglobato dal regno dell’uniformazione nichilista. L’illibertà totalitaria del regno della reificazione si fa, allora, perfetta e assoluta solo ove diventi invisibile, dunque libera da ogni possibile altrove da cui possa essere messa a fuoco e contestata: ciò che c’è, diventa tutto. E la menzogna totale, con la quale la società frammentata coincide, non può più essere contraddetta. Gli stili di vita interni al monocromatismo assoluto del mercato sono apparentemente tutti diversi e, in verità, tutti millimetricamente allineati. La scelta tra i diversi decade, così, al rango di selezione tra diverse sfumature del medesimo. L’iperconsumismo della società omologata ha solo in apparenza moltiplicato ruoli e possibilità, scelte e offerte: moltiplicandoli, li ha tutti ridotti all’unum della forma merce. Nei suoi spazi, i differenti sono tutti, infatti, interni all’antro, che non mettono mai in discussione né, più semplicemente, nominano. Lo danno per scontato, come i pesci evocati nel Fedone fanno con l’acqua e con il loro mondo degli abissi.