La società totalitaria dello spettacolo

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L’indistinguibilità della realtà del mondo dal suo racconto mediatico è, ancora una volta, ciò che garantisce la tenuta di un inganno che è tanto più difficile da smascherare, quanto più manca un contatto concreto con la “realtà reale”: nell’apoteosi della virtualizzazione dell’essente, il sistema mediatico non è più un mezzo che narra il mondo, ma è, di fatto, il mondo stesso. È quello che Baudrillard appellava le crime parfait: la sovrapposizione del mediatico al reale si accompagna a un’altissima definizione del mezzo, a cui corrisponde una bassissima definizione del messaggio. In effetti, come l’antro di Platone, anche quella sua variante postmoderna che è la società signoreggiata dai simulacri e dal virtuale si caratterizza come uno spettacolo permanente o, secondo la formula del Debord della Société du spectacle, come un’“immensa accumulazione di spettacoli” (§ 1): nei cui spazi il vissuto e l’esperito sono spodestati a beneficio della rappresentazione e dalla messa in scena.

Il reale non deve essere in alcun modo inteso come un’alterità con la quale il virtuale sta in un rapporto imitativo più o meno aderente, a seconda dei casi. Il reale deve, al contrario, risolversi senza riserve in una produzione del virtuale stesso, di modo che tra le due istanze si dia piena identità: e il virtuale diventi, per questa via, il solo reale, saturandone gli spazi. Nel trionfo della diade di simulacres et simulation evocata da Baudrillard, non deve più esservi altra realtà, altra verità e altro esistente rispetto ai flussi di immagini che la società dello spettacolo fa ininterrottamente scorrere sui propri schermi, falsificando integralmente la vita sociale, intrattenendo gli incatenati postmoderni e inducendoli ad amare, mediante lo spettacolo, la loro stessa cattività. La “società dei simulacri”, come la qualificava Perniola, corrisponde al mondo divenuto favola, dove la plenitudo essendi del reale è sostituita dagli εἴδωλα organizzati dai moderni sofisti tecnicizzati e i cittadini consapevoli e attivi sono spodestati dai telespettatori manipolati e passivi.

Per questo, uscire dalla caverna significa liberarsi anche dall’autorità “di posizione” di coloro che controllano i mezzi di comunicazione, e dunque governano l’informazione ricevuta dai prigionieri. Vuol dire, in pari tempo, non accettare più che delle condizioni strutturali – trovarsi nel fondo della caverna oppure al suo ingresso – legittimino, implicitamente, delle forme di autorevolezza culturale “dall’alto”. Il regno del mondialismo capitalistico, in cui i simulacri si sono autonomizzati e hanno spodestato il reale – “il mondo autonomizzato dell’immagine” evocato da Debord (§ 2) –, è il regno dell’accumulazione capitalistica e del suo coessenziale feticismo portati al grado massimo di estensione (planetarizzata) e di intensità (la mercificazione dell’intero immaginario). Vettore privilegiato di quella che è stata definita la cultural domination, lo spettacolo permanente che, senza mai tramontare, occupa ogni anfratto dell’antro globale coincide appieno con il capitale divenuto ab-solutus, “realizzato” perché ormai “liberato da” ogni superstite vincolo materiale e immateriale: parafrasando Debord, lo spettacolo imperante nella caverna globale coincide con il capitale che, perfettamente corrispondendo al proprio concetto, si fa immagine e riduce l’essente nella sua interezza a speculum sulla cui superficie riflettere tautologicamente e senza zone franche se stesso. È questa l’essenza del brand new world a reificazione integrale, un unico campo di concentramento che, parafrasando Adorno, si crede un paradiso poiché non v’è nulla di realmente esistente che possa essergli contrapposto.

Si raggiunge, così, lo zenit del feticismo. Il non vivente, l’accumulo cosale delle merci, si autonomizza e si fa spettacolo permanente. E realizza, così, quell’inversione di Soggetto e Oggetto in forza della quale ora il morto signoreggia il vivente, la cosa l’umano, il prodotto il produttore. Lo spettacolo della caverna tende, per ciò stesso, a ridefinirsi nei termini della camera oscura messa a tema da Marx ed Engels: la sua prerogativa è di mostrare in forma rovesciata il reale che riproduce, presentando le ombre ideologiche come autonome e tali da determinare le azioni umane, da cui quelle ombre stesse scaturiscono. Le due funzioni, evidenziate da Diderot, dello spettacolo che, alle spalle degli ignari spettatori, viene gestito nell’anonimato da sofisti vecchi e nuovi risultano compresenti nell’odierna realtà interamente mediatizzata. Per un verso, come nella descrizione di Platone, lo spettacolo desta la saldissima illusione che il simulacro sia il reale e che non vi sia altro reale all’infuori del simulacro (il percepito si erge a sola realtà): le ombre sostituiscono la luce e gli spettatori della caverna non dispongono di altro quadro cognitivo all’infuori di quello che viene loro forgiato su misura dalla società dello spettacolo e dai suoi burattinai.

Come nella narrazione platonica, lo spettacolo che viene proiettato sulle pareti della grotta non fa che ripetere, in forme fintamente pluralistiche, che lo spazio della caverna è il solo e che coincide con il migliore mondo possibile, nonché con l’unico. In ciò, lo spettacolo svolge effettivamente la funzione di “discorso ininterrorro” e di “monologo elogiativo” – parola di Debord – che il rapporto di forza realmente dato tiene su stesso, al fine di legittimarsi mediante la rimozione della pensabilità di ogni alternativa possibile. Tale è l’essenza – “l’autoritratto”, scrive Debord (§ 24) – del potere tecnocapitalistico, pervenuto alla sua amministrazione totale delle condizioni dell’esistenza e dell’immaginario. Secondo l’insegnamento della Histoire de la propagande di Jacques Ellul, “la propaganda deve essere totale”, cioè tale da impiegare ogni mezzo e soffocare ogni spazio di autenticità, proprio come avviene nell’antro platonico. Per un altro verso, lo spettacolo intrattiene e diverte, distrae e rassicura, secondo la duplice e sinergica accezione del divertissement già indagata da Pascal. Di più, genera assuefazione e pone in essere le condizioni della dittatura propria della società di massa già tratteggiate, con sguardo profetico, da Tocqueville, allorché immaginava con quali tratti si sarebbe presentato il nuovo dispotismo (sous quels traits nouveaux le despotisme pourrait se produire dans le monde) o, se preferiamo, la nuova caverna della prigionia umana con spettacolo e godimento incorporati.