La storia della lingua italiana – Parte 2

Nell’articolo precedente La storia della lingua italiana - Parte 1 ci siamo fermati ai primi impieghi letterari del volgare non ancora normalizzato.
Per arrivare alla “Questione della lingua” e, quindi, alle prime sistematizzazioni del volgare, è stato necessario spogliarlo dai pregiudizi con i quali era stato rivestito.
Nel 1400 prese avvio un movimento di rivalutazione, chiamato “umanesimo volgare”. L’iniziatore fu Leon Battista Alberti, il quale realizzò la prima grammatica della nuova lingua - la Grammatichetta - per dimostrare che questa possedesse una struttura grammaticale ordinata al pari del latino.
La missione promozionale fu portata avanti dalla corte medicea. Lorenzo de’ Medici incentivò la produzione letteraria in toscano, affinché la sua città ottenesse il “principato” della lingua. Per dimostrare concretamente la ricchezza e la dignità del volgare toscano, fece allestire un’antologia di rime - la Raccolta aragonese (omaggio a Federico D’Aragona) - che raccoglieva i componimenti scritti dai poeti predanteschi fino a quelli dei fiorentini contemporanei.
All’escalation sociale del volgare concorsero tre fattori:
1. La mobilità cortigiana: i contatti tra cortigiani provenienti da diverse corti italiane esigevano l’impiego di una lingua di koinè, che altro non era se non il toscano depurato dai tratti locali. Questo idioma ibrido divenne d’uso frequente nelle cancellerie.
2. La letteratura religiosa (laude, sacre rappresentazioni): per rendersi fruibile dalla gente comune, fu abbandonato il latino a vantaggio delle varietà toscane o di quelle dell’Italia centrale.
3. L’invenzione della stampa: la rivoluzione tipografica influenzò inevitabilmente l’evoluzione linguistica, poiché si rese necessaria una regolarizzazione dei canoni di scrittura. I tipografi, per la maggiore, scelsero di seguire la norma bembiana.
Eccoci giunti alla questione della lingua: una disputa sorta in ambito letterario nel XVI secolo per stabilire quale fosse il migliore modello linguistico da adottare nella penisola italiana.
Si svilupparono diverse correnti di pensiero:
1. La corrente “fiorentina” capeggiata da Pietro Bembo. Nelle Prose della volgar lingua (1525), Bembo si espresse a favore del volgare toscano usato dai grandi letterati trecentisti. Suggeriva dunque di seguire Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (lo stile della cornice del Decameron, non quello delle novelle). Non riteneva adeguato, invece, il paradigma offerto da Dante nella Commedia, giudicato spesso e volentieri popolare fino all’eccesso.
All’interno di questo indirizzo si distinguevano, poi, coloro i quali sostenevano che accanto al fiorentino letterario si dovesse affiancare il fiorentino parlato dell’uso vivo e contemporaneo. Tra questi ricordiamo Machiavelli (Discorso intorno alla nostra lingua) e Varchi (l’Hercolano).
2. La corrente “cortigiana”, il cui principale sostenitore fu Baldassarre Castiglione, autore del Cortegiano (1528). I fautori di questa posizione ritenevano che il volgare migliore fosse quello usato nella comunicazione di corte, soprattutto in quella romana, perché nella città, melting pot di genti, si era formata naturalmente una lingua di conversazione sovraregionale di base toscana. Alla teoria arcaizzante di Bembo, i “cortigiani” contrapponevano l’uso linguistico vivo.
3. La corrente “italiana”, il cui teorico fu Giovan Giorgio Trissino. Trissino riscoprì e diede alle stampe la traduzione inedita del De vulgari eloquentia di Dante (1529), dal quale prese spunto per le sua teoria. Nello stesso anno pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua di Petrarca non fosse fiorentina, bensì “italiana”, ovvero composta da vocaboli selezionati dai vari idiomi locali. La sua proposta, riprendendo quella avanzata da Dante e in parte avvicinandosi alla cortigiana, affermava l’esistenza astratta di un “volgare illustre” non identificabile con nessuna lingua esistente, ma ottenibile attraverso la commistione dei migliori elementi linguistici tratti qua e là dalle varie corti italiane.
La soluzione vincente fu quella di Pietro Bembo, poiché:
«formalizzava in maniera rigorosa e teoricamente fondata quanto già accaduto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutt’Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente imitazione dei grandi trecentisti.» Claudio Marazzini, La lingua italiana. Storia, testi, strumenti., Il Mulino, Bologna, 2010, p.142.
Ci fu dunque un proliferare di opere letterarie, grammatiche e vocabolari ispirati ai dettami bembiani. Citiamo a tal proposito Le regole grammaticali della volgar lingua (1516) di Giovan Francesco Fortunio e il primo vocabolario italiano, Le tre fontane (1526) di messer Niccolò Liburnio.
Il Cinquecento fu il secolo d’oro del volgare: l’italiano scalzò il ruolo privilegiato del latino e acquisì piena dignità.
Tuttavia, era ancora lunga la strada da fare per costruire una lingua padroneggiata da tutti i parlanti e adattabile a ogni contesto d’uso. Nel 1600 proseguì il lavoro di regolarizzazione della neonata lingua.
Fondamentale fu l’intervento dell’Accademia della Crusca, un’associazione privata nata a Firenze che diventò un punto di riferimento nazionale in fatto di norma linguistica (anche se molti non erano ancora disposti ad accettare il primato fiorentino).
Nel 1612 fu stampata la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, seguita da altre 4 edizioni ampliate e aggiornate; l’ultima, dopo anni di revisione, è stata stampata fino al 1923 (anno in cui fu interrotta alla lettera “O”).
Dopo aver “sconfitto” la supremazia del latino, nel 1700 l’italiano si trovò a concorrere con il francese, erede dell’universalismo latino.
Un accademico, Rivarol, elaborò un pensiero - che trovò terreno fertile anche tra studiosi postumi - secondo cui il successo del francese era dovuto alla sua struttura logica chiara e razionale; al contrario dell’italiano, lingua delle inversioni sintattiche e, quindi, della passione emotiva e dell’irrazionalità. Logicamente si trattava di una distinzione infondata, le differenze strutturali erano rette da motivazioni storiche e culturali, non naturali.
Proseguivano nel frattempo le contese tra i sostenitori e gli oppositori dell’autoritarismo fiorentino. È del 1764 il pamphlet scritto dagli intellettuali della rivista Caffè, Rinunzia avanti notaio al vocabolario della Crusca.
Malgrado ciò, Firenze era riuscita a imporre il proprio modello; ma una volta scelta la lingua, bisognava diffonderla, per cui il problema linguistico si spostò nelle scuole. Videro la luce i primi manuali dedicati all’insegnamento.
Si trattava però di una fida complessa, dal momento che il volgare prescelto come italiano era ancora riservato alle élite, ai libri e alle situazioni ufficiali; mentre nella conversazione quotidiana, il popolo continuava a esprimersi in dialetto. Per questo motivo l’italiano veniva considerato una lingua “morta”.
La questione della lingua, dunque, era tutt’altro che risolta. Nell’800 il dibattito si rianimò, legandosi alla questione sociale.
Nel prossimo appuntamento approfondiremo la questione della lingua nell’800, fino ad arrivare alla nascita ufficiale dell’italiano. Non mancate!