La terra dei D'Innocenzo

Fonte Immagine: ilmessaggero

La passacaglia è un componimento musicale d’origine iberica, propria di girovaghi e saltimbanchi, che si basava – trovando il suo utilizzo soprattutto in periodo medievale – sulla leggera ma continua variazione di un monotono ritmo, ricorrendo a poche note ripetute, quasi salmodiate. Questa particolare composizione melodica è stata tramandata fino ai giorni nostri da cantanti e cantautori: pensiamo ad esempio a Passacaglia del rimpianto Franco Battiato. L’andamento costante, sostenuto di questi brani, li tramuta in un impasto ipnotico e avvolgente, paralizzante e penetrante.

Non è un caso che, al termine dei novantotto minuti che compongono Favolacce - opera seconda dei fratelli D’Innocenzo e loro pass a palcoscenici di prim’ordine, grazie ai riconoscimenti ottenuti in occasione del festival di Berlino e dei David – sia proprio una passacaglia ad accompagnare lo scorrimento dei titoli di coda. La scelta è ricaduta sulla Passacaglia della vita, il cui testo non certo brioso («Oh come t'inganni, se pensi che gl'anni, non hann' da finire, bisogna morire…») esprime perfettamente i contenuti del mondo malato, perturbante, angoscioso appena rappresentato sullo schermo. Al tempo stesso però, il suono rapisce l’ascoltatore, la voce melliflua di Rosemary Standley trasporta la mente in un’altra dimensione: ed è così anche per il modo, la forma, con cui i D’Innocenzo’s presentano i loro lavori. Una serie di scene che non danno respiro, inquadrature sopra le spalle dei personaggi nelle cui vite entriamo, spiandoli, condividendone le impurezze e i crimini, agghiacciati alla vista di ciò che ci si para davanti ma impossibilitati a rivolgere lo sguardo altrove, come il Saba di Eros ci avrebbe consigliato. Sta tutta in questa breve esibizione canora la descrizione perfetta della cinematografia di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Almeno, per quello che hanno fatto vedere fino ad ora.

Dopo i successi di La terra dell’abbastanza e Favolacce, i due gemelli sono tornati alla direzione con America Latina. Per chi sta seguendo con attenzione l’evoluzione del duo, l’opera è sembrata un altro mattoncino sulla strada già intrapresa. La trama è semplice, per permettere allo spettatore di concentrarsi pienamente su quanto accade nell’attimo della proiezione. Il protagonista, ovvero uno splendido e camaleontico Elio Germano, alla seconda esperienza attoriale con i due giovani registi, è un uomo dalla vita invidiabile: una famiglia perfetta, un lavoro perfetto, l’amicizia immarcescibile con Simone, fido compagno di bevute e lunghe chiacchierate. Ma il vetrino mediante il quale osserviamo, come al microscopio, l’esistenza di Massimo (alias Elio) è destinato a creparsi, come accade ad una lampadina prima di una delle scene madre del film. Infatti, una sconvolgente rivelazione nascosta nella cantina del lussuoso villino di Massimo lo porterà a dubitare di tutto ciò che lo circonda, del suo passato, dei suoi ricordi, del suo futuro.

Questo il concetto essenziale che la poetica di Fabio e Damiano vuole trasmettere: come in Favolacce, bisogna dubitare delle apparenze, immergersi sotto la superficie borghese, elegante, raffinata, delicata per scoprire la melma che, sospesa, si cela appena pochi centimetri più in basso. Scelte formali che si ripercuotono inesorabilmente sulla messinscena filmica: più volte la camera indugia su specchi e riflessi, i personaggi si sdoppiano, sono deformati, portano sulle spalle pesi (metaforici e non) che li incurvano rendendoli grotteschi. In fondo i protagonisti delle vicende di Favolacce e America Latina sono mostri, lupi, travestiti da uomini comuni, piena personificazione della banalità del male arendtiana. E su questi drammi fatti di psicosi, schizofrenie, atti puri di malvagità, si sofferma impietoso l’obiettivo della cinepresa, costringendoci ad assistere. Se poi dovessimo legare indissolubilmente la produzione filmica dei due fratelli ad un elemento, di certo questo sarebbe l’acqua. Acqua che si dimostra una presenza quasi ingombrante nel corso del film. Ma questo soltanto perché essa appare in tutte le sue sfaccettature, portando con sé tutti i suoi simbolici significati: acqua che lava dal peccato, dalla colpa, non dissimile da un novello Lete; acqua che si fa simbolo di rinascita, di resurrezione; acqua che tenta di nascondere, di celare, di “affogare” nelle sue correnti imbarazzanti e atroci segreti.

Persino la dinamica degli eventi affrontati da Massimo sembra ripercorrere un viaggio a ritroso nell’evoluzione animale: dalla superficie splendente, luminosa, all’immersione nei primi strati, ancora illuminati, sottomarini, prima di raggiungere le profondità tenebrose dell’abisso, laddove solo il verso tormentato e lontano delle balene (che a un tratto, nel corso della proiezione, sembra davvero di riconoscere) può giungere. I D’Innocenzo, dopo aver analizzato la fragile psiche di bambini fin troppo cresciuti in Favolacce, tornano a battere sul tema del doppio, d’altronde visibile fin dal titolo di America (terra dell’abbondanza, della ricchezza, del sogno) Latina (non ce ne vogliano gli abitanti della provincia indicata, ma nella finzione filmica terra del pantano, della palude, del lutulento acquitrino in cui stagnano i delitti commessi).

I D’Innocenzo sanno come segnare l’osservatore, lasciando in lui cicatrice indelebili, dubbi, domande, inedite e indesiderate sensazioni. Lo avevano effettivamente già dimostrato con la realizzazione del soggetto di Dogman, altro capolavoro del moderno cinema drammatico italiano firmato da Garrone.

Consigliato a tutti? Assolutamente no. Film da prendere con le pinze e da affrontare a viso aperto, senza scudi, preferibilmente in un momento sereno della propria vita. Il turbamento che valica i confini del display è tangibile, per quanto l’illusione cinematografica voglia suggerirci di aver vissuto storie non nostre, distanti. E in effetti i vissuti che vediamo proiettati sullo schermo sono estranei al nostro io, questo sì, ma inquietantemente più vicini di quanto vorremmo pensare. La voce fuoricampo che, in entrambi gli ultimi lavori dei D’Innocenzo, proclamano come fatti di cronaca i misfatti a cui abbiamo, in terza persona, preso parte.   

«E’ un sogno la vita che par sì gradita…»