Laicità vs laicismo

Nel regime neoliberista, nei cui spazi blindati il mercato figura come la sola istanza di socializzazione ammessa, riconosciuta ed encomiata, vengono dissolte tutte le identità stabili, collettive, tradizionali e acquisite: più precisamente, viene percepita come discriminante, autoritaria e oppressiva ogni identità che non sia autocraticamente scelta dall’invididuo consumatore. Quest’ultimo, a sua volta, è concepito alla stregua di un atomo neutro che balza fuori già formato come Minerva dalla testa di Giove e che scolpisce se stesso in qualità di oltreuomo a volontà di potenza consumistica smisurata. Occorre, a tal riguardo, sempre distinguere tra il giusto principio della laicità da quella sua aberrante e patologica deviazione che è il laicismo: il primo rivendica il primato dello Stato sulla religione, riconoscendo a ogni cittadino la libertà di culto. Il secondo, invece, coincide con la pretesa della desimbolizzazione integrale, ossia con l’annullamento di ogni spazio del sacro. Se ne può, allora, inferire che quanti lottano in nome del laicismo contro il Crocifisso e gli altri simboli della religione conducono una battaglia che coincide con quella intrapresa con successo dal nichilismo della civiltà dei consumi e dalla sua omogeneizzazione dello spazio sotto il segno della forma merce. Costola della new left fucsia e arcobaleno, l’armata Brancaleone dei laicisti lotta contro le religioni della trascendenza e, insieme, nulla ha da eccepire rispetto al nuovo monoteismo iperimmanentista del mercato e rispetto alla società patologica su cui esso si fonda: una società in cui è esibita ipertroficamente la sfera sessuale ed è nascosta con vergogna quella religiosa; in cui i simboli del sacro sono cancellati e si lascia spazio solo ai simboli della merce e della moda. Il mito regressivo del progresso si innalza a nuova religione del nuovo tempo desacralizzato: il progresso al tempo del tecnocapitalismo altro non dice se non il mero sviluppo tecnico, il semplice potenziamento dell’apparato della produzione e dell’efficienza deemancipativa dei mercati, ossia – con Pasolini – la “meccanica e irreversibile distruzione di valori”. Contestando tutti gli Assoluti che non siano quello immanente della produzione capitalistica, l’“armata Brancaleone” del laicismo integralista si pone come il completamento ideologico ideale del fanatismo economico, in cui “The Economist” diventa “L’Osservatore Romano” della globalizzazione capitalistica e le leggi imperscrutabili del Dio monoteistico divengono le inflessibili leggi del mercato mondiale (per inciso, era già noto al Gramsci dei Quaderni del carcere che, nel regime del capitalismo avanzato, la Chiesa e, in generale, la religione non sono più “potenza ideologica mondiale”, ma solo “forza subalterna”). In questo, mediante un illuminismo al servizio dell’oscurantismo, il laicismo rivela la sua natura di fondamentalismo illuministico svuotato della sua nobile funzione emancipativa e ridotto a semplice funzione espressiva del capitale e delle sue lotte contro ogni divinità non coincidente con il mercato. Per i corifei del laicismo, instancabili lavoratori presso la corte del re di Prussia, la sottomissione alla superstizione religiosa dev’essere destrutturata in modo che dominino incontrastate la superstizione e la sottomissione sub specie oeconomica. L’obbedienza servile deve essere riservata unicamente all’economia, alle “sfide della globalizzazione”, all’insindacabile giudizio del mercato, al vincolo del debito e al dispotismo delle agenzie di rating. In ciò risiede il carattere dell’oggi trionfante ateismo religioso dell’armata Brancaleone del laicismo. Si tratta di una forma di ateismo intrinsecamente religiosa non soltanto perché trasforma l’inesistenza di Dio in articolo di una fede che non di rado rasenta l’integralismo, ma anche per il fatto che, come si è detto, opera ideologicamente nel senso di una delegittimazione del Dio tradizionale che si rivela funzionale alla santificazione del monoteismo del mercato come unica prospettiva teologica consentita. Per questo, la critica della teologia economica deve oggi racchiudere al proprio interno anche una critica dell’ateismo religioso.