Liberismo e riduzione della cultura a know how

La tesi che intendo articolare è la seguente: l’ordine neoliberale tende a ridurre la cultura a know how e, dunque, a “sapere” asservito al principio dell’utile. Emblematico e, insieme, profetico risulta il saggio di von Hayek del 1945, intitolato The Use of Knowledge in Society (1945). La tesi fondamentale è che conoscere, apprendere, istruirsi, non significa avvicinarsi alla verità e divenire consapevoli di sé e del mondo. Significa, al contrario, acquisire uno know how pertinente, che migliorerà la posizione dell’individuo sul mercato.
Il soggetto che si è formato – argomenta von Hayek – dispone di un capitale culturale da cui può trarre profitto, competendo con successo su quanti non l’hanno accumulato. Siffatta paideutica dell’utilitarismo nichilistico, che precorre l’odierna distruzione liberista della scuola e della formazione (ridotte rispettivamente ad azienda e a sapere utile), viene ripresa con entusiasmo dal Lyotard della Condizione postmoderna (1979), secondo un intreccio insospettato che rivela la profonda affinità tra la ragion liberista e quella postmoderna.
Nell’evo postmoderno – spiega Lyotard – lo studente e l’istituzione formativa in cui egli è inserito non debbono domandarsi cosa sia vero, ma cosa sia utile: “La domanda più o meno esplicita che si pongono lo studente aspirante professionista, lo Stato o l’istituzione di insegnamento superiore, non è più: è vero? Ma: a che cosa serve? Nel contesto della mercificazione del sapere, tale domanda significa nella maggior parte dei casi: si può vendere? E nel contesto dell’incremento di potenza: è efficace? Ebbene, la formazione di una competenza performativa sembra essere sicuramente vendibile nelle condizioni descritte in precedenza, ed è efficace per definizione. Ciò che non lo è più, è la competenza definita in base ad altri criteri, quali vero/falso, giusto/ingiusto, ecc., ed anche evidentemente la scarsa performatività in generale” (La condizione postmoderna).
Ufficio primario ed esclusivo della scuola e dell’università, in sostanza, è la formazione di competitors efficaci, che sappiano concorrere con successo in quell’arena del profitto che è la società ridefinita come mercato integrale.
Perché questo possa avvenire, occore – per von Hayek come per Lyotard – prendere congedo dall’idea di cultura fine a se stessa e da ogni possibile riferimento del sapere a dimensioni non immediatamente spendibili sul mercato, come quelle connesse al vero, al giusto e al buono. Si pongono, così, in essere le condizioni per quella “negazione dello stesso concetto di cultura” che, negli Scritti sociologici, Adorno ravvisava come fondamento dell’avanzata del capitale nell’ambito della scuola e dell’università. La ricerca del vero viene spodestata dallo know how finalizzato all’utile e, insieme, si dissolvono l’autonomia, la spontaneità e la capacità critica.
Prevalgono, per converso, il conformismo del puro calcolo e l’adattamento cadaverico alle regole, in vista non già della critica della società alienata, bensì del proprio successo individuale nei suoi spazi blindati. Si ha, per questa via, il trionfo della ragion liberista nella sfera che più delle altre le aveva resistito, spesso anzi ponendosi come luogo delle elaborazioni critiche contro la mercificazione in atto.
Non ci stancheremo di ribadire che la ragion liberista non annulla il sapere, ma lo produce, in senso chiaramente liberistico. Per questo motivo, favorisce un ideale toto genere utilitaristico dell’istruzione: essa non mira più, come in passato, alla formazione di cittadini a tutto tondo, ma alla generazione di “capitale umano” performativo e agevolmente spendibile sul mercato del lavoro. L’istruzione cessa, così, di essere intesa e praticata come formazione e come scolpimento del proprio sé: prende a essere concepita come un investimento mercatistico, chiamato eo ipso a estrinsecarsi in risultati economicamente apprezzabili, dunque quantitativi e calcolabili mediante il business generato.
È in questo desolato orizzonte di senso che si spiegano, tra l’altro, fenomeni come la prevalenza della formazione professionalizzante su quella generalista, il trionfo degli insegnamenti tecnologici su quelli schiettamente umanistici e la generale ridefinizione dello studente come “capitale umano”, come “consumatore di formazione”, come “risorsa” chiamato a destreggiarsi con le tre sacre “i” (impresa, inglese, internet). Non stupisce, dunque, che i finanziamenti alla ricerca siano puntualmente orientati in questa direzione, con definanziarizzazione di ciò che esuli da questo paradigma, innalzato a solo degno di essere perseguito; per questo, ancora, il lessico dell’istruzione è colonizzato dalle sintassi economiche (consumatori di formazione, debiti e crediti, presidi managers, ecc.) e ogni richiamo più generale alla cultura classica è guardato con sospetto.