Parola d'ordine: integrazione

Sin dalla lontana epoca dell’imposizione sul mercato cinematografico delle etichette poi divenute note come Majors (i giganti di Universal, Columbia, Warner Bros, Disney, Paramount), il termine “integrazione” ha giocato un ruolo estremamente importante.
Verso la fine degli anni ’20 e l’inizio dei ’30, l’universo della pellicola subì una serie di trasformazioni destinate a modificare il modo di approcciarsi a questo particolare media. Era l’alba dell’era dello studio system, indice del modus operandi secondo cui un ristretto circolo di enormi case di produzione e distribuzione accentravano nelle loro mani una buona percentuale della realizzazione filmica mondiale. Le mastodontiche aziende che potevano permettersi afflussi ingenti di denaro decisero, praticamente, di monopolizzare a proprio favore il settore, imponendosi al mondo come esclusive voci nell’oceano – diventato mare – delle case cinematografiche di riferimento.
Questi grandi studios avevano compreso che per impossessarsi della filiera, dovevano infiltrare ad ogni livello la propria presenza. Ciò avrebbe permesso alle singole imprese hollywoodiane di controllare ogni fase relativa non solo alla vera e propria creazione artistica dell’opera, ma anche delle successive operazioni di pubblicizzazione, indicizzazione e distribuzione del prodotto. È da immaginare questo meccanismo come il lavoro operaio in fabbrica secondo il modello fordista: ciascun elemento svolge un piccolissimo compito diversificato rispetto agli altri e partecipa alla esecuzione finale dell’articolo. Nel concreto, ciascuno studio nel periodo dell’anteguerra si era dotato di propri teatri di posa e aveva stretto contratti a lungo termine con i migliori attori, registi, sceneggiatori e troupe allo scopo di garantirsi la possibilità di accaparrarsi i migliori interpreti anche per interi quinquenni, senza l’apprensione di dover sostenere improvvise o impreviste spese. L’espansione degli studios, come abbiamo detto, non avveniva però solo per quanto riguardava la prima fase di creazione di una pellicola. La distribuzione sul territorio nazionale (e non solo) dei film veniva stabilita a tavolino da questi nuovi imperi economici, che potevano così sopraffare ogni tentativo di produzione indipendente. Le locandine delle singole sale di proiezione (spesso, persino queste, di proprietà dei predetti colossi) vedevano ben volentieri ricomparire i volti dei pochi divi dello star system che avevano legato la propria fama e la propria immagine a questa o quella casa di distribuzione e, attraverso ritmi serrati, facevano la loro apparizione anche in numerosi prodotti cinematografici diversi ogni anno.
Ma questo tipo di fenomeno, noto come “integrazione verticale” e presente anche in realtà socio-culturali diverse dalla sfera culturale (se ne parla, ad esempio, anche riguardo ad alcuni processi industriali o economico-finanziari), non fu l’unico del suo genere nel mondo inventato dai fratelli Lumiére.
Per spiegare bene ciò che intendiamo, ci sarà d’aiuto Jaws (Lo squalo), opera indimenticata di Steven Spielberg. Con un bel salto temporale, eccoci giunti al 1975. Il film sarà un successo incalcolabile, il prototipo del vero blockbuster: incassi record, audience in visibilio, botteghino in cortocircuito. Il risultato di tutto ciò fu che Jaws si trasformò, da semplice film, in una pietra miliare del genere thriller, un riferimento culturale per un’intera generazione, nonché (ultimo ma non ultimo) una miniera d’oro accessibile a molti. Accadde così che l’integrazione, da verticale, si fece orizzontale. Non solo Spielberg e il suo studio di produzione (la Universal Pictures) si erano insediati ad ogni anfratto nel percorso di presentazione al pubblico dell’opera (da non sottovalutare infatti la spietata e asfissiante pubblicità che venne fatta del prodotto, oltre che l’applicazione di operazioni commerciali come il block booking che diedero maggiore visibilità e risalto alla pellicola) ma avevano anche invaso ogni fibra del mercato anche in sezioni apparentemente distanti anni luce dall’universo audiovisivo. L’onda lunga del successo senza precedenti de Lo squalo, oltre a scatenare la messinscena di numerosissimi sequel, remake, reboot e parodie, permise al film di conquistare vari altri rami economico-culturali. Il 1975 vide la nascita dell’attuale sistema di merchandising cui siamo abituati, capace di instaurarsi intorno ad ogni tipo di prodotto televisivo o cinematografico. Grazie al film Lo squalo si assistette infatti alla crescita spropositata delle vendite del libro da cui lo sceneggiato era stato tratto (un romanzo di Peter Benchley), ma non fu solo il cosmo librario ad essere influenzato dal clamore del lungometraggio targato Spielberg. Spopolarono articoli di varia tipologia legati all’abbigliamento: da t-shirt a maglioni, da jeans a cappelli, ciascuno realizzato con un design particolare e l’inconfondibile muso dell’inquietante squalo bianco che da il titolo alla pellicola. Ma fu solo il primo passo: documentari, saggi e libri di approfondimento, attrazioni site in parchi a tema, giochi da tavolo, perfino videogames e canzoni celebrative. L’impresa cinematografica si arricchisce di migliaia di nuove sfaccettature, ampliando la propria sfera di azione ad innumerevoli aree da sempre interdette al cinema. Gli incassi delle proiezioni sono affiancati dallo sfruttamento continuo dei diritti creativi correlati al film, permettendo agli studios di decuplicare le proprie entrate e al pubblico in sala di portare letteralmente con sé (in dosso, alla radio, durante momenti di svago o di relax) i risultati di ciò che era nato come “semplice” spettacolo audiovisivo.
Una rivoluzione in piena regola, giocata intorno a questa parolina magica: integrazione.