Resnais e il cinema (impegnato) del disastro

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In molti, nel corso di questi due anni, hanno cercato di raccontare a modo loro l’evolversi di questa pandemia. I più svariati media ci hanno tenuto incollati a radio, carta stampata, televisioni per aggiornarci giorno dopo giorno sul decorso dell’epidemia - un ospite spiacevole da cui ancora fatichiamo a separarci.

Se, ovviamente, i mezzi di informazione tradizionali sono stati gli strumenti più impegnati nella trasmissione delle notizie riguardo la diffusione della malattia, non mancano anche le rielaborazioni “artistiche” del morbo. A dire il vero, il grande schermo si è da sempre dedicato allo studio di mondi distopici sconvolti da terribili pestilenze. La moda “visiva” degli ultimi anni ha spinto molti autori ad inventare universi paralleli in cui funghi, batteri o infestazioni di vario tipo finiscono per dare luogo a orde di zombie senza cervello pronte a divorare gli ultimi – più assennati – sopravvissuti umani.

Forse l’inventor generis di questo intreccio romanzesco fu Richard Matheson, il quale, nel 1954, pubblicò una raccolta di racconti fantascientifici e orrorifici. Tra i tanti cunti inseriti in questo repertorio, rientra anche quello da cui poi, nel 2007, avrebbe tratto origine il cult di Francis Lawrence Io sono leggenda. Tematiche affini sono poi confluite anche in alcune delle opere del maestro dell’orrore, George Romero, iniziatore del genere zombie friendly in pellicola. Nel pieno della rivoluzione culturale sessantottina, il regista statunitense naturalizzato canadese riuscì a dare vita ad una delle pietre miliari dell’horror: La notte dei morti viventi. Si trattò solo del primo di una lunga sequela di successi: Zombi, Il giorno degli zombi, La terra dei morti viventi, Le cronache dei morti viventi e Survival of the Dead - L'isola dei sopravvissuti proseguirono nel solco di questo innovativo arco narrativo. In tempi più recenti è facile pensare ai vari Warm bodies o World War Z, con il tentativo da una parte di concedere nuovo respiro ad una forma molto battuta nel corso del tempo, assumendo la prospettiva dello zombie nella narrazione; dall’altra di ricorrere ad uno spropositato utilizzo di effetti digitali per spettacolarizzare la cinevisione. Impossibile poi non citare anche alcune rivisitazioni del filone sui morti viventi anche in chiave serie tv, con il fiore all’occhiello degli AMC Studios: The walking dead.

In ogni caso, ciò non vuol dire che la riflessione filmica sui contagi e le loro conseguenze si fermi a astratte e fantascientifiche revisioni. Tutt’altro. Se risaliamo ad uno dei movimenti cinematografici più fecondi e apprezzati del nostro Belpaese (il nostro caro Neorealismo), non possiamo lasciarci sfuggire un titolo come La morte a Venezia, fortunato trasferimento su celluloide dell’omonima opera vergata da Thomas Mann. Oltralpe, cavalcando l’Onda Nuova che investì la produzione filmica del Vecchio Continente tra gli anni ’50 e ’60, un altro lungometraggio che può rientrare nel nostro elenco è La jetée. Si tratta di un’opera molto insolita, più vicina alla definizione di fotoromanzo che di sceneggiato audiovisivo vero e proprio. Stavolta, nessuna infezione mortale all’orizzonte: la trama disegna però ancora una volta una Terra-altra, in un futuro distorto in cui l’umanità, dopo lo scoppio di un’inevitabile terza guerra mondiale basata sull’utilizzo di armamenti nucleari, si ritrova costretta ad una eterna quarantena nel sottosuolo, unico punto ancora abitabile del pianeta blu. Le immagini scorreranno sullo schermo, una dopo l’altra, accompagnate da un laconico e freddo commento mentre, tra esperimenti brutali e atroci sofferenze, un uomo cercherà di trovare una soluzione all’esilio sotterraneo degli ultimi sopravvissuti.

Il periodo della Nouvelle Vague si soffermò spesso su tematiche catastrofistiche e apocalittiche, distanziandosi però dalle tematiche più narrative e spettacolari alla Romero (la cui filmografia, influenzata dalle luccicanti e colossali produzioni made in Hollywood, era ancora di là da venire) e abbracciando, piuttosto, una psico-narrazione delle conseguenze, delle cicatrici che alcune tragedie avevano scavato a fondo nella società contemporanea. L’autore che più di tutti renderà esplicito questo riferimento è senz’ombra di dubbio Alain Resnais. Regista tra i più osannati dalla critica cinematografica per la sua capacità di mettere in scena “il tempo”: ricordi, memorie, previsioni, attimi di presente si avvicendano senza tregua durante la proiezione, costruendo l’immagine di un uomo scisso, frammentato, diviso in tante parti quanti sono i cassetti della sua mente. Come molti si azzardarono a dire – poiché creare paragoni è passione irrefrenabile dell’essere umano –, Resnais sembrò applicare al grande schermo la sensibilità oltre che la frantumazione dell’io tipica della scrittura proustiana.

Non ci sono pestilenze dietro la cinepresa di Resnais, ma a ben vedere ciò che non manca è il leitmotiv della elaborazione del lutto, del cortocircuito della memoria incapace di dimenticare, anzi, che non deve dimenticare nonostante il dolore e lo strazio affrontati. Quello dell’elaborazione è un topic non semplice da affrontare: per noi, che siamo ancora nel pieno del coronavirus, l’idea di tornare alle nostre “vite di prima” al 100% appare come qualcosa di improbabile, per usare un eufemismo. Eppure già ora siamo riusciti a ristabilirci in una normalità che appena qualche mese fa ci pareva inimmaginabile. Quello che serberemo per sempre, ad ogni modo, saranno i nostri ricordi. I mesi in solitudine, le lugubri parate in quel di Bergamo, le vie vuote. Porteremo per sempre con noi questo peso. E Resnais, a suo tempo, parlava proprio di questo.

Notte e nebbia è, essenzialmente, un documentario raccontato. La camera raggiunge Auschwitz, l’inquadratura perde nitidezza, il colore lascia spazio al bianco e nero. È il momento della riesumazione di migliaia, milioni di scheletri nell’armadio; è il tempo di «meditare che questo è stato». Ciò che davvero colpisce è la cruda drammaticità dei fotogrammi: corpi scavati, senza vita, abbandonati, ammucchiati. Il regista non mostra alcuna pietà, scava in quel che è stato davvero senza concedere neanche un benevolo lapsus alla memoria storica.

Appena tre anni più tardi, Resnais decide di pigiare un altro tasto dolente. È il 1959 e nelle sale viene affissa la locandina di Hiroshima mon amour. Non risulta difficile comprendere il theme principale dell’opera. Essa infatti si apre con due corpi stretti in un abbraccio: corpi di due amanti, in un incontro notturno, proprio nella cittadina giapponese. In un secondo scatto, le loro sagome sembrano contornate da un fitto strato di polvere, forse cenere. Due voci fuoricampo, probabilmente l’uomo e la donna uniti in questo statico amplesso, ci prendono per mano e ci fanno immergere in un nuovo tuffo nel passato. Un passato caldo, «come 10.000 soli, si dirà». Ancora una volta, le riprese di Resnais sono impietose: edifici del ricordo, musei, archivi, sale di proiezione, danno il là a una serie di devastanti video di repertorio. Un’intera città annientata in un batter d’occhio, esseri umani evaporati, inceneriti, mutilati, squassati da uno scoppio fulmineo.

Resnais getta però uno sguardo di speranza su detriti e cicatrici indelebili: le immagini si diradano e la scena torna al presente, torna all’amore, alla fiamma della passione, al racconto di un innamoramento, di un possedersi, di un ritrovarsi sconfiggendo anche i demoni della storia.

È in questa ottica che dobbiamo recuperare queste grandi opere, oggi come oggi. Film immortali, capaci di parlarci forte e chiaro ora come 50 anni fa.