Rimedi all'Euphoria

Con colpevole ritardo rispetto al termine della seconda stagione, ecco giunta l’ora di scrivere alcune righe su Euphoria.
Molti ne avranno sentito parlare come una delle serie evento degli ultimi anni, altrettanti avranno ben presente per esperienza personale gli argomenti di cui a breve tratteremo. Ma ora rispondiamo ad una domanda per chi non ha mai voluto/potuto dedicarsi a questo prodotto. Di che parla Euphoria? Al di là del titolo superficialmente entusiastico, difatti, c’è ben poco di cui essere gioiosi all’interno dello sceneggiato assunto tra le punte di diamante della HBO. La più banale delle definizioni di Euphoria che si possa ricevere è infatti che ci si trova di fronte ad uno dei più classici teen drama in cui relazioni di amicizia adolescenziali, primi amori, frequenza scolastica, problemi irrisolti con le famiglie e incontro/scontro con l’eros la fanno da padrona all’interno di un gruppo ben assortito di giovani studenti. Il tutto, reso più piccante dalla irresistibile propensione all’uso delle droghe da parte della protagonista del nostro lungo viaggio, Rue Bennett (interpretata fantasticamente da una splendida e adattabilissima Zendaya).
Ascoltando solo questo ristretto riassunto, verrebbe da chiedersi perché dedicare tempo a questa visione piuttosto che ad un’altra. Se ci si immerge nel fittissimo palinsesto Netflix, giusto per fare un esempio, alla voce teen drama rientrano tormentoni degli ultimi tempi come Riverdale, Elite, Skins, Sex Education. Cosa avrebbero in meno questi successi di pubblico rispetto ad Euphoria?
Probabilmente buona parte della risposta sta proprio nella concezione del prodotto ideato da Sam Levinson. La trama esteriore diviene infatti solo un pretesto per allargare il cerchio sia da un punto di vista concreto che sotto un aspetto prettamente formale. Soffermiamoci, in primo luogo, proprio su quest’ultime. Il main theme della droga dà adito ad inquadrature psichedeliche, con continui cambi di fuoco, rovesciamenti di camera, giochi di luci e colore capaci di lasciare col fiato sospeso. L’occhio metallico della cinepresa riesce a restituirci il mondo per come viene distortamente percepito dalla nostra protagonista nonché voce narrante. E come accade ne La coscienza di Zeno, anche qui non mancano le deformazioni dovute alla condizione del nostro storyteller. E tali deformazioni sono evidenti anche ad occhio nudo, fermandoci al piano della pura immagine. Anche i look e i make-up ostentati ed eccessivi dei vari personaggi non fanno altro che cercare di porre un velo tra una realtà cruda, fatta di dolori, sconfitte, rifiuti, ed un utopico e irrealizzabile modello a cui assomigliare. Notevoli e pregevoli sono poi le citazioni ad opere precedenti o ad altri universi artistici: nelle loro numerose scampagnate in bicicletta, Zendaya e una sua amica (Hunter Schafer, Jules nella serie, e non diremo altro per evitare spoiler) sembrano come risucchiate in un cosmo parallelo buio e isolato, in scene che fanno riassaporare in parte il classico spielbergiano ET, ma che al tempo stesso sembrano ritrarre le due protagoniste come novelle Alice in Wonderland. E in effetti il tentativo di evadere dal vero, cosparso dalle sue quotidiane sfide e dalla sua immarcescibile crudeltà, si fa motivo ridondante della serie fin da subito. Ma i riferimenti extratestuali, o ancora meglio visti i tempi e la preponderanza del digitale anche all’interno del racconto in questione, ipertestuali, non si limitano solo al settore cinematografico. Famosissimo è il climax d’opere d’arte “reinterpretate” da Schafer e Zendaya in una puntata della seconda stagione: dalla Venere di Botticelli all’autoritratto di Frida Kahlo, passando per Gli amanti di Magritte. Ineludibile poi è anche una delle ultime puntate della seconda stagione in cui una rappresentazione teatrale diventa l’occasione per una mise en abyme di ciò che abbiamo visto fino a quel punto, riconducendo al palcoscenico la sua funzione di doppio della realtà. Ma questi sono solo i dettagli più evidenti di una certosina e curatissima resa stilistica.
Veniamo invece all’aspetto sostanziale della narrazione di Euphoria. Ciascun character ha il suo peso specifico ai fini della trama, nessuno viene lasciato indietro e anzi, ogni individuo racconta una storia che, da sua, si trasforma in qualcosa di più grande, di condiviso. Gli interpreti che prendono parte alla storia affrontano demoni diversi ma tutti profondamente attuali, scottanti persino: il body shaming, il rapporto con la droga, il rapporto conflittuale col padre o con la madre, l’esplorazione della sessualità, la riflessione su omosessualità e transgender. Tanta, tantissima carne a cuocere per uno show etichettato su wikipedia come “dramma adolescenziale”.
Un ultimo consiglio per la visione: le ultime due puntate della prima stagione, gli speciali che vertono attorno alle due protagoniste della vicenda, non sono assolutamente skippabili. In quel momento, il ritmo incalzante della narrazione si sospende, si tira il fiato, e la distanza tra noi e i personaggi sembra ridursi. In quelle due ore, Rue e Jules travalicano lo schermo, smettono i loro panni da personaggi (in qualche modo irreali, emblematici, esagerati) per mostrare cosa si nasconde sotto la superficie.
Il mio consiglio è: seguite questa serie con attenzione. Non vi fermate all’apparenza. Potreste rimanere stupiti dalla vivacità e dalla originalità di una serie tv - con buona pace dei suoi semitici precursori.