Totalitarismo occulto del marketing e come non uscirne

I vecchi totalitarismi, quelli del Novecento, erano imperfetti e sempre costretti a ricorrere alla violenza e all’estetica dei supplizi. Imponevano ai cittadini cosa fare. Dal canto suo, il nuovo totalitarismo trasgressivo del marketing impone ai consumatori cosa volere. Anzi, a rigore, non impone platealmente, ma persuade in forma occulta: e, in tal guisa, ottiene un’adesione che non è solo formale (e, dunque, tale da alimentare possibili contestazioni, come accadeva negli spazi blindati dei totalitarismi del passato). È, al contrario, una accettazione sostanziale e, per ciò, assai più propriamente totalitaria, perché in grado di colonizzare l’anima e di devitalizzare alla radice il gesto stesso della contestazione rispetto a un sistema totalitario, ma falsamente percepito come solo regno possibile della libertà.
Come si è cercato di mostrare in “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”, il totalitarismo glamour della civiltà del libero mercato è trasversale e, insieme, onnipresente: occupa invasivamente, mediante la pubblicità e le strategie dell’informazione manipolata, ogni cellula dell’esistenza nelle sue sfere più diverse.
Secondo la profetica intuizione di Pasolini, il potere massmediatico della civiltà classista dei consumi è riuscito appieno là dove tutti i totalitarismi del passato avevano fallito: ha imposto un dominio totale sulle anime ancor prima che sui corpi. Ha generato l’intollerabile e, insieme, soggetti disposti a tollerarlo. Ancora una volta, parafrasando l’Adorno della “Dialettica negativa”, il carattere totalitario della società frammentata – che trova la sua unità nel fatto di non essere unitaria – si evince anche dal fatto che essa, più che sequestrare i suoi membri, li crea a propria immagine e somiglianza.
Secondo questa chiave ermeneutica, l’invito ubiquitario ad accomiatarsi dalla propria lingua-madre per aderire all’inglese internazionale dei mercati non presenta come obiettivo, contrariamente a quanto ribadito dalla retorica dominante, l’integrazione e il dialogo tra i popoli, bensì la loro desimbolizzazione e la loro sussunzione integrale sotto il Nomos dell’economia globalizzata e della sua unica lingua alienata.
Con l’usuale strategia, il sistema dei bisogni deeticizzato e no border promuove l’uso compulsivo del globish, dell’inglese asimbolico del mercato finanziario. Fingendo di voler favorire la comunicazione e lo scambio tra i popoli e mira, invece, alla neutralizzazione delle lingue nazionali, scrigni in cui sono custodite le radici dei popoli e la loro provenienza storica.
Con le parole dei Quaderni del carcere, “il linguaggio è una cosa vivente e nello stesso tempo è un museo di fossili della vita passata”. È, per così dire, il luogo della fusione di orizzonti tra il passato da cui proveniamo e del presente in cui esistiamo come comunità nazionale-popolare. L’individuo, in quanto parlante la propria lingua, è già sempre inserito in una comunità storica, della quale è parte viva, e in una dimensione essenzialmente intersoggettiva, essendo il linguaggio “la mia coscienza che è per altri”.
Per questo, con l’apporto degli oratores – guardiani dell’ortodossia e sacerdoti del politicamente corretto –, l’élite neo-oligarchica impone l’inglese asimbolico del mercato come lingua liturgica sacralizzata, in modo che si produca la perdita delle identità linguistiche e dei patrimoni culturali e simbolici.
Come si è sostenuto in “Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo”, il globalitarismo finge di voler superare le lingue nazionali dei popoli per favorirne la comunicazione interculturale in lingua inglese: e, segretamente, persegue l’obiettivo della neutralizzazione di ogni reale dialogo culturale che ponga in relazione dialettica i popoli.
Questi ultimi, sempre più costretti a congedarsi dalla propria lingua storica (demonizzata come “provinciale” e “non internazionale”) e, dunque, dalla loro cultura tradizionale, non avranno di fatto più nulla da dirsi e saranno ridotti a meri agenti neutri e anglofoni dell’economia finanziarizzata e delle pratiche del consumo. Mancheranno perfino delle grammatiche basiche per articolare linguisticamente il proprio dissenso: la lingua o, meglio, la neolingua globalista permetterà loro soltanto di mediare tra le merci liberamente circolanti che essi stessi sono divenuti.
A tal riguardo, vi sono studiosi che hanno evidenziato il “genocidio linguistico” che il ritmo onniomologante del mondialismo genera fisiologicamente, condannando sempre più lingue e più culture a sparire nel vuoto indistinto del pianeta unificato dalla forma merce.
Coerente con i processi in atto di deeticizzazione, l’annientamento operato dal nuovo regime globalitario della figura della madre per l’individuo corrisponde alla distruzione della lingua-madre per i popoli. In luogo dell’inglese radicato nella storia e nella cultura, nella tradizione che fu di Shakespeare e di Wilde, si impone su scala planetaria la neolingua globish, una versione semplificata dell’inglese che, riducendo all’essenziale la lingua, la defrauda di ogni componente culturale.
Avulso da ogni tradizione storica nazionale-popolare e meramente duplicante la sfera della circolazione finanziaria, il globish si pone come esito del processo della Neutralisierung sul piano linguistico. E si affianca alla forza dell’onnipresenza del logo delle marche cosmopolitiche, che da tempo hanno conquistato anche gli angoli più remoti del pianeta.
La globalizzazione rivela qui la sua essenza di “anglobalizzazione”: sul versante linguistico, i processi di inclusione neutralizzante coessenziali alla mondializzazione si danno, infatti, come annessione del mondo intero sotto la lingua globish, con parallela rimozione della pluralità delle lingue storiche nazionali.