Tra Cinema, Teatro e Letteratura

Fonte Immagine: quotidianonazionale

Wagner era un compositore. L’essere umano, dacché se ne abbia memoria, ha sempre sentito la necessità di recintare, delimitare, contenere. Tutto ciò che ci appare come smisurato, infinito, tutto ciò che viaggia lungo una retta, travalica la nostra capacità di comprensione, ergo ci spaventa. Forse è questo in breve il compendio esplicativo riguardo la nascita della “definizione”. Definizioni che si appropriano di tutto, categorizzano ed etichettano anche ciò che mai potrebbe (o dovrebbe) essere catalogato. Dinanzi a questa inevitabile avanzata di questo fenomeno classificante, non possiamo sottrarci dall’affermare: Wagner era un compositore.

Ma la realtà è ben diversa da come l’uomo la immagina. Non esistono distinzioni manichee, né intere biografie possono finire cristallizzate in forme artificiose tanto distanti dal loro pulsante ed eterogeneo originale. Giambattista Marino, poeta barocco del ‘600 partenopeo, in una sua opera intitolata La galeria, cercò di mettere su, tra pagine di inchiostro, un vero e proprio museo tascabile, descrivendo in tutti i dettagli e particolari dipinti e sculture esistenti e non (suggerendone implicitamente, per queste ultime, la creazione). Un esempio evidente di arti che si intrecciano, che dialogano tra loro, che si mettono al servizio l’una dell’altra, senza rinunciare ciascuna alla propria magia, al proprio esprit. Richard Wagner offrirà il paradigma per eccellenza dell’incontro tra il diverso, della plasmazione dell’indefinibile: la Gesamtkunstwerk o “opera d’arte totale” era un concetto che affascinava profondamente l’intellettuale tedesco, il quale spesso fece menzione di questo termine nei suoi saggi oltre a cercare, attraverso la sua musica, di dare vita ad un progetto tanto ambizioso.

Qualcosa di simile, risultato di un lineare processo, è successo a La vita davanti a sé, romanzo di Romain Gary edito nel 1975. La trama ci racconta di un piccolo orfano, Momò, abbandonato dalla sua ignota madre alle amorevoli cure di Madame Rosa, una anziana bocca di rosa (come da appellativo) dedita a fare da balia per i pargoletti “imprevisti” affidatigli dalle prostitute del quartiere. Naturalmente, in cambio di denaro. Il mondo descritto dal giovane protagonista è duro e impervio, elitario e inospitale. Momò, in quanto bastardo privo dei genitori (di cui non conosce l’identità), si sente condannato alla solitudine, se non fosse per la presenza della – a suo modo – affettuosa Rosa, sconvolta dalla sua anzianità e da alcuni incubi ad occhi aperti riguardo alla sua permanenza ad Auschwitz.

Il libro si rivelò fin da subito un successo, conducendo Gary alla vittoria del premio Goncourt, uno dei massimi riconoscimenti francesi, per la seconda volta nella sua carriera: fatto curioso, poiché esso era stato concepito sotto l’obbligo di non venir riconsegnato per più di una volta allo stesso individuo, cosa che rende ancora più chiara la grande eco che ebbe il volume alla sua uscita.

A più di un quarantennio di distanza, qualcuno ha deciso di re-impugnare queste premiate pagine per farne un film. Edoardo Ponti, figlio dell’indimenticabile Sophia Loren, ha infatti deciso di trasporre sul grande schermo l’esperienza di Momò. Il ruolo di Rosa, la mamma “stipendiata” dei ragazzi nel libro, è toccata proprio alla musa premio Oscar madre del regista. Tale scelta di certo non va propriamente incontro alla descrizione che il volume cartaceo fa della donna, corpulenta e sfiorita nei suoi tratti: di certo imparagonabile alla diva che nei suoi film, oltre che nella vita reale, aveva fatto perdere la testa a numerosi colleghi. D’altronde a cambiare è anche l’ambientazione: ci si sposta da Parigi alla più prossima Bari. E a cambiare, oltre allo sfondo, è anche il tono generale della narrazione. Vengono un po’ a mancare gli spunti satirici o di un comico grottesco e popolare ravvisabili nell’antecedente su carta. L’intera vicenda viene filtrata attraverso gli occhi del giovane Momò nell’atto stesso di vivere la sua storia, tramutandosi in un racconto di formazione e crescita allo stato puro, incentrandosi proprio sulla prospettiva della maturazione data dall’età. Momò sembra così l’incarnazione in salsa moderna dello scugnizzo traviato dalla retta via da cattive frequentazioni e dall’abbaglio di soldi facili e falsi mentori. Madame Rosa resta così per lui l’unico appiglio di fronte ad un mondo caotico e irriguardoso persino nei confronti dei più deboli. A chiudere la proiezione, il brano di Laura Pausini che le ha permesso di raggiungere il gradino più alto del podio ai Golden Globe per la categoria “miglior canzone originale”.

Forse, per chi aveva grandi aspettative su questo film, l’impatto non è stato dei migliori: attraverso le tante modifiche, la trama perde parte del suo mordente e della sua eccentricità, conformandosi ad altri prodotti. Questo traspare anche dalle parole di Silvio Orlando, il quale, proprio per questo motivo, ha deciso di imbarcarsi in una sua personale crociata per dare luogo ad una terza riedizione dell’opera, stavolta messa in scena sul palcoscenico del teatro Mercadante di Napoli. E bisogna dare atto che Orlando è riuscito davvero nel suo intento. Una scenografia spartana e un cast ridotto all’osso (si è trattato praticamente di un lungo monologo dell’attore campano) hanno permesso allo spettacolo di rapire per tutta la sua durata il pubblico presente. La maggiore aderenza agli intendimenti originari di Gary ha ridato all’opera il suo vecchio spirito, improvvisando una sorta di lungo componimento musicale, pronto a sfumare tra le note di un blues, di un jazz o di un foxtrot a seconda dell’andamento dei ricordi. Uno sceneggiato fatto di musiche, colori, ricordi rivissuti dalla prospettiva di un anziano Momò.

Una storia, tre racconti, per ciascuno un medium differente. Ecco: l’arte non conosce confini.