Uscire dalla caverna. Da Platone alla UE

Da Platone fino a tempi piuttosto recenti, l’esodo dalle tenebre della caverna resta l’immagine par excellence dell’emancipazione del genere umano, la metafora esplosiva attorno alla quale si sono organizzate, prima di qualsiasi elaborazione concettuale, le aspettative fondamentali verso il significato del pensiero e dell’azione. Queste ultime, grazie al dispositivo metaforico inaugurato da Platone, non hanno smesso di gravitare intorno all’ideale dell’esodo da una condizione di falsità organizzata, nel senso dell’uscita vuoi dalla caverna platonica, vuoi dallo “stato di minorità” – il compito da Kant assegnato all’Illuminismo –, vuoi, ancora, dal capitalismo come luogo della schiavitù che si celebra come libertà.
Fin dal suo sguardo originario, il mito della caverna unisce saldamente tra loro la verità e la libertà, assumendo la prima come condizione di possibilità per la seconda: e questo secondo quell’intreccio esplosivo che attraverserà l’intera avventura occidentale, dalle Scritture – “la verità vi farà liberi” (Gv 8, 32) – fino all’Illuminismo e alle alterne vicende del marxismo.
È noto il cominciamento della Repubblica platonica. Kateben, “io scesi”: così inaugura la discussione Socrate, narrando della propria discesa al Pireo, il porto di Atene collocato, rispetto all’Acropoli, in posizione declinante, e del dialogo svolto il giorno precedente sul tema della giustizia. L’espressione è tutt’altro che casuale: allude metaforicamente, oltre che alla concreta discesa al porto, al movimento discensivo che è chiamato a compiere il filosofo in quell’Ade che, intessuto di ingiustizia e di soprusi, è la vita reale, la caverna in cui è tenuto prigioniero il genere umano.
L’emancipazione – è questo il più prezioso insegnamento del mito della caverna di Platone – non è mai questione individuale. Si può essere liberi solo se tutti lo sono: la libertà, infatti, consiste in una relazione sociale nella dimensione dei rapporti intersoggettivi. Il sapere che permette al singolo di affrancarsi dalle catene della falsità della manipolazione deve, a sua volta, tradursi in energia pratica in grado di emancipare l’umanità tutta. La liberazione universale è parte integrante della verità contemplata dal singolo che è riuscito a squarciare il velo delle ideologie che saturano in forma invasiva l’orizzonte del pensiero.
È la stessa conversione filosofica al cielo delle idee a determinare, sul piano politico, l’esigenza di una “ridiscesa” (katabasis) nella caverna per portare a compimento il gesto filosofico per antonomasia: la liberazione dalle catene dei pregiudizi come da quelle materiali, vale a dire l’emancipazione universale – contro la falsità organizzata delle ideologie dominanti – resa possibile dall’acquisizione di coscienza del dover essere dell’umanità, delle sue potenzialità ontologiche non esaurite nel suo stato presente.
La manipolazione organizzata rende gli schiavi docili e remissivi, ignari cultori del proprio asservimento, incapaci di immaginare una realtà che non sia quella della caverna che perpetua il loro assoggettamento. Essi difendono con solerzia il mondo rovesciato di cui sono abitatori coatti, concependo come violenza non la realtà che li tiene imprigionati e li coarta a vivere in autenticamente, ma ogni atto volto a criticarla o a prospettare una fuga verso orizzonti meno indecenti. La prigionia viene vissuta e pensata come sola libertà possibile, quando il pensiero non sia più in grado di prospettare un’alterità, un eventuale essere-altrimenti in nome del quale valutare l’esistente e le sue mancanze. È la situazione dell’odierna mondializzazione capitalistica.
Dai Greci in poi, quella che, con Hegel, potremmo con diritto qualificare come la “coscienza infelice”, inappagata dall’esistente e in tensione verso una razionalità che ancora manca, resta stabilmente la base dello sguardo di ogni metafisica non adattiva. Pensare, come ricordava Ernst Bloch, significa oltrepassare, attivare la tensione verso un altrove che renda limpidamente visibile i limiti dell’oggi, le sue contraddizioni e, insieme, la necessità di porvi rimedio ridelineando alternativamente la sintassi dell’esistente.
L’adikia, l’“ingiustizia” che ha reso possibile il dispositivo metaforico della caverna di Platone e il suo stesso idealismo, dopo quasi duemila anni si ripresenterà come “alienazione” (Entfremdung), ossia come pervertimento delle potenzialità del genere umano nel cuore della prosa reificante della moderna società frammentata. Essa produrrà, quale reazione filosofica, l’idealismo tedesco come coscienza infelice di una borghesia avversa al capitalismo, perché in cerca di quell’emancipazione universale che esso fisiologicamente rende impossibile. Nella sua struttura portante, il paradigma resta invariato: nell’esodo dalla caverna mediato dall’agire umano è custodito il senso della filosofia come desiderio di ricondurre l’umanità a casa dopo la lunga prigionia, vincendo la resistenza del potere e di chi lotta per la propria servitù.
La scissione resta – così nella Differenzschrift hegeliana del 1801 – la fonte del bisogno della filosofia come fondamento veritativo che ristabilisca il vivere comunitario nel tempo della disgregazione, ossia quando la potenza unificatrice che fa degli individui parti della comunità è andata perduta e a dominare sono le opposizioni non più come parti dinamiche di un intero, ma come forze assolutizzate e a sé stanti. L’idealismo coincide, allora, con la rammemorazione dell’essere sociale e dell’identità soggetto-oggettiva dopo l’oblio moderno. Ne scaturisce una costellazione teorica borghese e anticapitalistica – sta qui, come ho mostrato nel mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, il segreto della coscienza infelice di Fichte, Hegel e Marx –, attraversata da soluzioni diverse e irriducibili, ma che trovano il loro coefficiente di unitarietà nell’opposizione radicale tanto all’autonomizzazione dell’economico, quanto all’assolutizzazione dell’individuo sradicato e della realtà oggettiva pensata come presenza astorica. Di qui l’esigenza di ripartire dall’idealismo, nell’odierno orizzonte del mercato sovrano e della dittatura della finanza e delle banche pudicamente chiamata “Unione Europea”.